Echi della Siria fino a Volgograd

di Stefano Magni

Due bombe in meno di ventiquattro ore nella città russa di Volgograd. La ex Stalingrado, famosa in tutto il mondo per aver fermato l’offensiva nazista nella grande battaglia del 1942, appare ora spaesata e impotente di fronte a un’offensiva di altro genere, senza linee del fronte e senza volto, condotta da cittadini russi di fede islamica, provenienti dalle turbolenti regioni della Cecenia e del Daghestan, a poche ore di treno.

La prima bomba era una donna: un’attentatrice suicida, vedova di guerra del Daghestan (le chiamano anche “vedove nere”) imbottita di esplosivo e schegge di ferro, arrivata alla stazione centrale di Volgograd apposta per fare più morti possibili. I controlli dell’ossessiva sicurezza russa sono stati vani. La donna si è fatta saltare in aria proprio di fronte ai metal detector che avrebbero dovuto permettere agli agenti di identificarla. Nella stazione era l’ora di punta. I russi l’affollavano per partire per le loro ferie di fine anno e formavano lunghe file davanti alla barriera dei metal detector. Un agente ha notato la donna, deve aver compreso le sue intenzioni e l’ha fermata, allontanandola dalla folla. Il gesto eroico ha risparmiato tante vite, ma non l’esplosione della cintura imbottita di tritolo. Quella detonazione, da sola, ha ucciso 18 persone e ne ha ferite altre 40, stando ad un bilancio ancora provvisorio.

Subito è diventata chiara l’idea che quella bomba non fosse l’ultima. Ed è iniziata la caccia degli agenti russi nella stazione e sui convogli ferroviari. Ma la morte è giunta inaspettata in un altro luogo della città, alle 8 di ieri mattina, su un anonimo filobus carico di persone. Anche questa seconda detonazione ha provocato un massacro: almeno 15 i morti e 23 i feriti. Autore della strage, a quanto risulta è un’altra donna, probabilmente un’altra “vedova nera”.

E pensare che Volgograd era stata colpita il 21 ottobre scorso da una donna kamikaze. Quell’attentato aveva fatto impressione, perché si trattava del primo atto ostile commesso a grande distanza dal “fronte” del Caucaso settentrionale.  Il mandante era chiaro: il terrorismo islamico. Il movente pure: rovinare le Olimpiadi di Sochi 2014 che iniziano il prossimo febbraio. Lo ha chiesto espressamente il leader del “Califfato” caucasico Dokka Umarov: colpire in Russia per destabilizzarla durante i giochi internazionali. Un modo primitivo e brutale di indurre al boicottaggio gli Stati partecipi a Sochi 2014, un messaggio di intimidazione che suona così: se partecipate ai fasti di una potenza “occupante”, non solo vi macchiate moralmente, ma rischiate anche di vedere i vostri atleti menomati e uccisi dalle nostre bombe. Dallo scorso ottobre ad oggi, il presidente Putin e il premier Medvedev avevano promesso un giro di vite nel Caucaso: fine della politica della persuasione e irrigidimento della repressione. La persuasione, fondata su aiuti economici e sul tentativo di trasformare il Caucaso del Nord in un’area turistica (le prossime Olimpiadi di Sochi dovrebbero far da volano) era evidentemente fallita. Questo autunno ha segnato il varo delle nuove leggi anti-terrorismo che si spingono ben al di là di ogni strategia finora adottata nella lunga guerra: la punizione sarà estesa a interi clan.

“Torna la punizione collettiva di Stalin” titolavano i blog dissidenti. Tutta la Russia può diventare come un’enorme Cecenia, dove il dittatore locale, fiduciario di Mosca, Ramzan Khadirov, applica già il pugno di ferro sugli attentatori, sui presunti terroristi e su tutti i loro clan. Ma purtroppo c’è poco altro da fare: il problema del terrorismo caucasico, come evidenzia lo stesso ruolo preminente delle “vedove nere”, non si può affrontare senza colpire interi clan. Se ti limiti a colpire il singolo, tutti gli altri parenti continueranno la loro lotta. In compenso, se estendi la lotta ai parenti, arrivi ai livelli di terrore indiscriminato che erano in vigore ai tempi di Stalin (e tuttora in Corea del Nord) dove venivano puniti coi lavori forzati anche tutti i parenti del condannato fino al terzo grado. Un brutto dilemma.

Nonostante la durezza delle nuove leggi e l’aumento della sicurezza, il duplice attentato di Volgograd dimostra che c’è ancora moltissimo lavoro da fare. I terroristi hanno umiliato le forze di polizia, colpendo lì dove era più alta la sorveglianza e più prevedibile una recrudescenza del terrore. Il Comitato Olimpico dichiara ancora che si aspetta Olimpiadi “sicure” garantite dalla sicurezza russa. Il comunicato è di ieri. Ma in cuor loro quanti sono così sereni e ottimisti?

Il problema vero è che il terrorismo caucasico non è solamente caucasico. Non ci troviamo più di fronte ai guerriglieri indipendentisti, ancora di formazione sovietica, che scatenarono la ribellione del 1993-94 e riuscirono a ottenere l’autonomia. Non abbiamo neppure più di fronte quell’alleanza di laici e islamisti locali che si levarono ancora in armi contro la Russia in Daghestan e in Cecenia nel 1999. Questo nuovo terrorismo, sviluppatosi negli anni 2000, è internazionale. Si tratta di jihadisti di professione, pronti ad andare a combattere in Iraq così come in Siria, collegati a network internazionali. E finanziati dall’Arabia Saudita. La nuova ondata di terrorismo nasce in Siria. In risposta all’interventismo russo pro-Assad, il 31 luglio scorso l’Arabia Saudita aveva già velatamente minacciato Putin di non poter più garantire la sicurezza dei giochi olimpici, come questo quotidiano aveva prontamente rilevato. Lungi dall’abbandonare Assad, la linea di Putin si sta rivelando quella vincente: abbandonati i propositi di intervento militare, anche Londra, Parigi e Washington vogliono ora giungere ad una soluzione negoziata del conflitto, con i prossimi colloqui di “Ginevra 2” e hanno tagliato gli aiuti ai ribelli jihadisti del Nord siriano. Un esito che l’Arabia Saudita dichiara di non voler accettare, né prendere in considerazione. Probabilmente facendolo capire anche con canali ben poco diplomatici, come abbiamo visto a Volgograd.

Fonte: Echi della Siria fino a Volgograd.

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