Far pagare l’Imu alla Chiesa è come volere un mondo in bianco e nero anziché a colori | Tempi.it

novembre 16, 2014Laura Borselli

Dietro la cosiddetta battaglia sull’Imu alla Chiesa ci sono mistificazioni, interessi e soprattutto l’ostilità nei confronti di un settore che è cruciale per la nostra economia proprio per la sua eccezionalità

poveriUno Stato appena formato, un debito consistente e, dato che gli strumenti monetari erano già stati utilizzati, la bella idea di fare cassa espropriando i beni ecclesiastici non destinati a funzione pastorale. Non è difficile, messi in fila i fatti in questo modo, cogliere un parallelo tra quello che accadde nell’Italia post-Unità e quello che succede oggi con la campagna sull’Imu, tornata alla ribalta nei giorni scorsi dopo una decisione della Corte europea, che ha riportato in voga tutto il consolidato corredo di mistificazioni e parzialità ben sintetizzato nel titolo di Repubblica che annunciava il fatto: “Imu alla Chiesa, l’Ue riapre il caso”. Sette parole e una omissione pesante: la tassa in questione non riguarda soltanto gli enti ecclesiastici, ma più in generale tutto il settore del no profit. La Corte di Giustizia europea ha infatti ammesso un ricorso contro la decisione della Commissione europea che, ammettendo le nuove regole poste dal governo Monti sul tema, considerava impossibile quantificare (e dunque recuperare) il gettito di imposta sugli immobili non versato tra il 2006 e il 2011 (in virtù di agevolazioni destinate a tutti gli enti no profit e poi giudicate incompatibili con le norme europee sugli aiuti di Stato).

«Il rischio – spiega a Tempi Pietro Barbieri, portavoce del Forum del Terzo Settore – è che venga inflitta una multa, una sanzione di carattere amministrativo, magari anche pesante, che potrebbe far scattare un meccanismo di rivalsa nei confronti del nostro paese. Ma il vero tema secondo noi è che si alimenta una speculazione pazzesca». È la speculazione di parlare di privilegi della Chiesa, quando in ballo ci sono non privilegi ma agevolazioni e per di più destinate a un intero settore che, lungi dal mettere in atto una concorrenza sleale, dà una grandissima mano allo Stato e alle persone. «Il no profit – riprende Barbieri – è quello che fa impresa per dare lavoro a chi è stato in carcere, a chi si trova ancora in prigione, oppure ai malati mentali, ai disabili. E ancora: sono no profit tutte quelle aziende che mettono in piedi spazi di socialità in quartieri ad alto rischio, mense per i poveri. Sono posti in cui i privati non si avventurano neanche!». In poche parole: interventi di welfare, in cui i profitti generati sono reinvestiti per dare impiego a nuove persone o per investimenti e non per arricchire chissà chi.

E allora che cosa succede? Alla fine di ottobre la Corte di giustizia europea ha dichiarato «ricevibile» nel merito un ricorso contro la Commissione europea, che nel 2012, guidata da Barroso, aveva chiuso il contenzioso sulle esenzioni per il no profit. Le nuove regole proposte dal governo Monti furono accettate e contestualmente fu riconosciuta l’impossibilità di recuperare le somme non versate tra il 2006 e il 2011. Il ricorso è stato presentato dai radicali Maurizio Turco e Carlo Pontesilli e sempre da area radicale erano venute tutte le precedenti contestazioni contro i presunti privilegi della Chiesa e del no profit in tema di fiscalità. Per completezza di cronaca va detto che oggi, proprio a seguito delle regole riscritte da Monti, tutte le attività no profit pagano le tasse (nella fattispecie Imu e Tasi) sulla porzione commerciale della loro attività. E per gli operatori del settore non è semplice districarsi in una normativa che, se nella formulazione definitiva ha scongiurato le ingiustizie che si temevano all’inizio, rimane comunque complessa da rispettare. «Si definisce commerciale – spiega ancora Barbieri – tutto ciò che è solo attività economica (pure il fundraising o la ricerca), così si apre un grande vulnus, introducendo questa caratterizzazione che va in senso diverso rispetto a tutto il resto della fiscalità agevolata».

povertà_caritasL’eterno sospetto: cosa c’è sotto?
Al netto degli abusi o degli errori che possono essere commessi anche nel mondo no profit e che vanno perseguiti con tutti i mezzi a disposizione (lo ha ribadito anche il segretario generale della Cei monsignor Galantino qualche giorno fa), le battaglie su presunti privilegi rischiano di lasciare sul campo, gravemente ferita, la credibilità di un settore della nostra economia cruciale proprio per la sua eccezionalità. Pietro Cafaro, storico dell’economia, docente all’Università Cattolica di Milano ed esperto di economia sociale e storia della cooperazione, parla di «mondo a colori», estraneo a quell’altro mondo, manicheo in bianco e nero, dove «l’efficienza è data dalle economie di scala e non esiste la possibilità di economie di rete, dove l’unica regola è il profitto individuale e non esiste l’automatica ridistribuzione delle risorse sul territorio». «Il rischio – dice Cafaro a Tempi – è quello di omologarsi a una cultura che vuole presentarsi come l’unica possibile, dove da un lato c’è la cultura liberale per cui il lucro privato muove tutto; dall’altro quella statalista per cui solo lo Stato può intervenire ad arginare la logica del profitto. A questo dualismo non sono estranee le istituzioni europee e a farne le spese è proprio quel “mondo a colori” delle cooperative e del no profit che non trova cittadinanza nel mondo in bianco e nero».
È da qui che prende le mosse una sorta di “imperativo morale” al sospetto, come se ogni realtà che non si inserisca in uno schema manicheo fosse un odioso paravento per coprire chissà quali illeciti. «Invece io credo che sia fondamentale ammettere che ci possono essere persone capaci di dare in maniera asimmetrica, senza ricevere in cambio allo stesso modo, anche attraverso istituzioni che hanno questi obiettivi. Persone e istituzioni che hanno come scopro primario non quello del lucro immediato ma quello di ottenere magari anche delle risorse, ma per ridistribuirle sul territorio, rendendolo più ricco e accogliente. E si badi bene che non penso solo alle attività caritative portate avanti dalla Chiesa o da altre organizzazioni benefiche, ma anche alle attività no profit che nascono dalla cooperazione e dal mutuo soccorso». Sotto attacco c’è un modello che non interessa soltanto il mondo cattolico. E che ha anche dei nemici storici.

FRANCE-POVERTY-HOMELESS-WEATHER-FEATURELa storia insegna
Cafaro ricorda la situazione successiva all’Unità d’Italia, quando, di fronte a un debito pubblico insostenibile, lo Stato scelse di espropriare gli enti ecclesiastici, col risultato che vennero tolte alla Chiesa proprietà, conventi e monasteri che rappresentavano il welfare del tempo. «Siamo tornati lì», spiega il professore aggiungendo che non è un caso se si creano situazioni del genere. «Di interessi dietro ce ne sono eccome. Ai tempi dell’Unità d’Italia quei beni vennero messi all’asta e acquistati da proprietari terrieri e da grandi banchieri internazionali. Analogamente oggi ci sono gli interessi di chi opera in settori come quelli dell’assistenza e della sanità. Gli attacchi in corso – conclude Cafaro – vogliono portare le persone a ritenere che le attività di welfare devono essere gestite o dallo Stato o da un privato per lucro, senza vie di mezzo. Così si distrugge la parte viva della società».

A Trieste, città epicentro dell’attività professionale di quel Franco Basaglia che fu il padre della legge con cui vennero superati i manicomi nel nostro paese, oggi c’è un albergo diverso dagli altri. È l’Hotel Tritone ed è gestito dalla cooperativa nata su impulso dello stesso Basaglia dopo la chiusura del grande manicomio della città. Pietro Barbieri lo definisce «una delle esperienze più incredibili di come si affronta la chiusura degli ospedali psichiatrici». Senza le agevolazioni concesse al no profit questa realtà non potrebbe esistere. «Non vogliamo fare polemica – puntualizza Pietro Barbieri – ma ragionare con la politica per rimettere in moto il meccanismo di coesione sociale e sussidiaria che in questo paese ha prodotto grandi soluzioni».

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