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30 aprile 2015

È un fronte islamico, che non si serve delle armi, ma del cibo. Ce ne siamo già occupati in passato, tuttavia è un ambito, questo, che non cessa di confermare preoccupazioni già espresse. Tutt’altro. Halal significa «conforme alla sharia», alla legge islamica. Oggi è facile trovare questa denominazione sulle insegne di molti negozi così come negli scaffali di tanti supermercati. In Italia come in Europa e nel mondo.

La giornalista francese Anne de Loisy, che scrive su Envoyé Spécial, Desracines et des ailes e Zone interdite, ha appena pubblicato un libro sull’argomento, intitolato Bonappetit! Ma, leggendo quel che accade nei macelli, l’appetito passa… Questo volume rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme. L’autrice giunge ad ipotizzare addirittura un vero e proprio Halalgate: secondo l’inchiesta da lei condotta in tre anni di verifiche sul campo, il 50% della carne bovina, il 40% di quella di pollo ed il 95% di quella d’agnello, in Francia, verrebbero macellati esattamente con questa modalità e secondo il rituale da essa previsto: «è il metodo più economico e più semplice per abbattere le bestie», ha spiegato a Paris Match. Molto più economico e semplice della procedura ordinaria, che comporta lavaggi più frequenti, tempi morti, ritmi di produzione più lenti. Per questo, de Loisy non ha esitato a parlare di scandalo.

Uno scandalo, finora del tutto ignorato dai partiti di governo, UMP prima e PS ora. Secondo Christophe Pichery, segretario generale del CARED, Comitato d’Azione per il Rispetto dello Stato di Diritto, «l’halal rappresenta una forte lotta identitaria, che rende conto in modo molto esplicito dell’avanzata raggiunta dall’islamizzazione in Francia». Il piano strategico, che si cerca d’introdurre (in buona parte già riuscendovi), consta di cinque obiettivi: 1) far soffrire le bestie, macellate senza anestesia, secondo precisi rituali e rivolte verso la Mecca: impiegano un quarto d’ora prima di morire, il loro dissanguamento dev’essere spontaneo e completo prima di procedere; 2) assenza di garanzie sanitarie per i consumatori; 3) finanziare tramite questo canale di vendita il culto islamico all’insaputa della clientela; 4) la disinformazione diffusa per vendere; 5) incentivare l’islamizzazione e radicalizzare gli immigrati musulmani.

I rischi

Il dottor Alain de Peretti, veterinario, presidente dell’associazione Vigilance Halal, forte di oltre 5 mila iscritti, è molto chiaro in merito: «Il regresso, cui si assiste dal punto di vista sanitario a fronte della pratica halal– afferma –, è la prova della viltà delle autorità davanti alla pressione del denaro». Cosa lamenta, in particolare, l’esperto, a quali rischi concretamente si andrebbe incontro? Si riferisce al fatto che tracce contaminate di rigurgito gastrico entrino in circolo nell’animale, dalla trachea sino al polmone e poi in tutta la carcassa, respirando ancora al momento della macellazione; al fatto che le bestie non anestetizzate eiettino per lo stress: quando i ritmi di lavoro sono intensi, l’assenza o la carenza di lavaggi determinano una sorta di coltura in cui si mischiano sangue, escrementi, rigurgiti a tempe-ratura ambiente per l’intera giornata. «Tutto ciò– avverte il dottor de Peretti – è assolutamente contrario al principio di precauzione, tuttora valido ed in vigore, talvolta anche in misura eccessiva».

Ma, pare, noni n questo caso. Un rapporto, redatto dall’Accademia dei Veterinari francesi, è stato inviato al ministro dell’Agricoltura già nel dicembre 2006 per mettere in guardia dai pericoli insiti nella tecnica di macellazione halal: dal punto di vista batterico, si va dai ceppi mutati di Escherichia Coli alla salmonella, dallo Staphylococcus Aureus ai prioni (viruspatogeni, causa di serie malattie, tra cui la più nota – ed ancora non debellata – Bse o “morbo della mucca pazza”).

Oltre a ciò, la macellazione halal viene indicata come possibile causa, ad esempio, dell’impennata nell’epidemia di gastroenterite registrata dalle autorità sanitarie, nonché della trasmissione di virulenze per trasduzione genetica, ciò che rende, ad esempio, i batteri resistenti agli antibiotici con gli inevitabili problemi annessi e connessi. Il fatto che in Occidente si sia abituati a mangiare carne poco cotta, col diffondersi degli alimenti halal espone evidentemente a rischi maggiori. Da qui le crescenti pressioni da parte del mondo medico, affinché si consumi carne ben cotta. Ma non bastano le raccomandazioni, occorrerebbe che chi di dovere agisse irreggimentando e, laddove necessario, anche proibendo.

Nel mondo

In Nuova Zelanda l’halal è proibito. In Francia, dal 28 dicembre 2011, i macelli halal devono avere un’autorizzazione prefettizia per operare, oltre a registri perfettamente in regola. Soprattutto, devono abbattere solo quanto venga espressamente ordinato. Ma abusi ed irregolarità non si contano, secondo quanto raccolto da indiscrezioni interne alle strutture, al punto da indurre l’associazione Vigilanza Halal a promuovere numerose azioni giudiziarie, per ottenere l’accesso agli atti necessari per le dovute verifiche: il caso della chiusura dei macelli di Meauxe Jossigny è finito anche in televisione. Inoltre secondo un sondaggio Ifop, il 72% dei francesi si dichiara contrario a tale macellazione rituale.

Secondo il dottor de Peretti, «non v’è in Francia alcuna seria indagine sui flussi finanziari generati dall’industria halal, alquanto opachi: eppure è dimostrato come in altri Paesi, tramite questi circuiti alimentari, vengano foraggiate direttamente le organizzazioni terroristiche tramite moschee, banche e società di beneficenza islamiche, nonché tramite alcuni organismi di certificazione. È quanto denunciato, ad esempio, in Canada da Alain Wagner, presidente dell’ICLA – International Civil Liberties Alliance. In Francia, invece, vige una vera e propria omertà». Dichiarazioni davvero preoccupanti. Con queste premesse come possiamo immaginare che in Italia le cose vadano diversamente? L’Italia è stata tra i primi Paesi ad autorizzare la macellazione halal: lo ha fatto col decreto dei ministri della Sanità e degli Interni dell’11 giugno 1980.

La deroga alle vigenti leggi, qui contenuta, è stata di fatto confermata anche nei successivi atti legislativi. L’unico marchio di qualità esistente, benché non sostituisca il certificato sanitario, resta un atto autoreferenziale, poiché brevettato dalla Coreis ovvero dalla Comunità religiosa islamica e la relativa convenzione interministeriale sottoscritta nel giugno 2010 coi Ministeri degli Esteri, dello Sviluppo Econo-mico, dell’Agricoltura e della Salute ha solo un obiettivo economico ovvero quello di esportare carne italiana all’estero, sostenendo l’internazionalizzazione del nostro sistema produttivo e limitandosi a raccomandare sul fronte igienico-sanitario che vengano sempre apportate le «necessarie modifiche» nella produzione, prescritte dalle ispezioni condotte, per renderla conforme alle normative italiane ed europee. A sollevar perplessità in merito è quanto scritto sullo stesso sito ufficiale della Halal International Authority, dove si precisa come halal sia «un prodotto o un’azione conformi alle norme etiche ed igienico-sanitarie della legge e della dottrina dell’islam ossia della sharia». Nient’altro.

Il 20 dicembre 2011 sull’autorevole quotidiano economico Il Sole 24 Ore è apparso un’intervista ad Annamaria Tiozzo, consulente di marketing islamico e di certificazioni religiose, dunque un interlocutore al di sopra di ogni sospetto, poiché dichiaratamente favorevole a tali pratiche. Eppure anch’ella ha ammesso come halal sia una sorta di «certificazione volontaria di prodotto, utenti finali ed aziende sono lasciati a se stessi. Sarebbe auspicabile l’istituzione di una commissione di studio, strada seguita da altri Paesi europei». E, se lo dice lei, v’è da crederci. Ma allora, a fronte di tutto ciò, più d’una rassicurazione sarebbe opportuna…

Sorgente: Radici Cristiane

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