Giovani, carine e fondamentaliste: occidentali e jihad | Tempi.it

ottobre 6, 2013 Laura Borselli

È bastato il sospetto che nell’attentato di Nairobi fosse coinvolta una inglese convertita all’islam per gettare sale su una ferita dolorosa e incomprensibile

donne-occidente-islam-jihadMuriel Degauque, belga, detiene il triste primato di essere la prima donna occidentale ad essersi fatta esplodere come kamikaze in Iraq. È successo nel 2005. In Iraq Muriel, originaria delle campagne vicino alla cittadina di Charleroi, ci arriva passando in macchina dalla Turchia al seguito del suo terzo marito. Ha 38 anni e il 9 novembre, giorno in cui l’Europa ricorda l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, si imbottisce di esplosivo e si avvicina a una pattuglia della polizia irachena a Baquba, a nord di Baghdad. Cinque agenti muoiono sul colpo e un altro ufficiale e quattro civili rimangono seriamente feriti.

Miriam – questo il suo nome dopo la conversione all’islam – ci mette un po’ ad esalare l’ultimo respiro. I primi soccorritori trovano a pochi passi dal corpo il passaporto con il suo vero nome e l’incredibile verità sulle sue origini. Dalla notizia della “kamikaze belga” all’identificazione della famiglia della ragazza passa poco tempo. La mamma di Muriel dirà di averlo pensato subito, guardando la tv, che quella follia atroce poteva essere opera della sua bambina.
Non riusciva a raggiungerla al telefono da diverse settimane. Non che i rapporti fossero di quelli in cui ci si dava la buonanotte ogni sera. Il matrimonio con Issam Goris, belga di origini marocchine anche lui ucciso in Iraq da soldati americani mentre stava per sferrare un attacco suicida, aveva definitivamente allontanato Muriel dalla famiglia.

Già dopo la conversione concomitante al matrimonio col primo marito (anch’egli di origine nordafricana) nel tranquillo cul-de-sac di Avenue de l’Europe, Muriel non si trovava più a casa sua: lei intenta a seguire i dettami di una nuova religione, i suoi genitori convinti che il marito le stesse facendo il lavaggio del cervello. «Era diventata più musulmana di un musulmano – racconterà la madre ai giornali dopo la tragedia. Subito dopo la conversione indossava un semplice velo, ma con l’ultimo marito passò allo chador».
Quando va a trovare i genitori non permette che si aprano birre né si accenda la tv. Nelle immancabili e terribili interviste ai vicini di casa della “ragazza normale” qualcuno ricorda l’incidente d’auto in cui morì il fratello diciottenne di Muriel quando lei era appena un’adolescente. «Muriel mi disse che sarebbe voluta morire al posto del fratello. Tutti lo amavano». Al quadro di apparente normalità che cova la follia sembra non mancare nulla: il trauma infantile, l’amore per uomini affascinanti e autoritari, il senso di sicurezza nell’abbracciare con fervore una nuova religione, la presa di distanza inflessibile dalle proprie origini.

Emmy Awards 2013, ecco le nominationCome una puntata di Homeland
Il telefonino, i vestiti, la tv, le ciambelle di McDonald’s in orgogliosa trasgressione ai menù salutisti dei giorni normali. E poi quelle cose meno futili, i libri che fin da piccolissime gli abbiamo messo in mano, la musica che hanno ascoltato con noi, le scuole e i master delle grandi opportunità. Arriva un giorno in cui prendono tutto quello che gli abbiamo insegnato o trasmesso, i vizi e l’educazione, prendono la nostra eredità e decidono che si è trasformata in un peso insopportabile, che è quella la zavorra da buttare a mare per veleggiare verso la felicità. Che può essere persino nascosta nella dedizione a uomini inflessibili, devoti a una religione che a poco a poco si rivela essere quella del fondamentalismo.

Qualche giorno fa è emerso che tra i terroristi coinvolti nell’attentato contro il centro commerciale di Nairobi ci sarebbe anche una cittadina inglese. La polizia è ancora ancorata alla cautela, ma per diversi giorni l’ipotesi che in quel commando di morte ci fosse anche Samantha Lewthwaite, vedova di uno degli attentatori del 7 luglio a Londra e ricercata per terrorismo in Kenya, ha gettato sale su una ferita particolarmente dolorosa e incomprensibile, che si riapre ogni volta che si ha notizia di una storia simile a quella di Muriel, di una donna occidentale convertita al fondamentalismo islamico. Una delle storie di Homeland, la popolare serie tv americana che racconta la lotta di un’agente della Cia per sgominare un nuovo attacco sul suolo statunitense dopo quello dell’11/9, è proprio quella di una cellula composta da un uomo arabo e una giovane americana. Una storia dove è lei, la ragazza “yankee” di buona famiglia, a trascinare il giovane amante verso una vita da pericolosi terroristi, pedine di un gioco spietato che finirà per stritolarli.
Il seme del fondamentalismo che si annida nella vita delle figlie di una società placidamente democratica, come nella drammatica vicenda di Pastorale americana di Philip Roth, sconvolge e riversa su chiunque lo sgomento che un editoriale del Foglio della scorsa settimana condensava così: «Questi “terroristi bianchi” sono il volto di una nuova élite jihadista internazionale. Non sono i diseredati della terra. (…) oggi il volto di questo terrorismo è spesso bianco ed europeo, nasce dall’odio di sé dell’Occidente».

Nel marzo scorso è stata arruolata nel triste plotone delle occidentali convertite alla lotta armata jihadista anche Nicole Mansfield, cittadina americana dello Stato del Michigan, uccisa in Siria perché in forze ai ribelli anti Assad. In questo caso le circostanze della morte sono confuse, ma il ritratto di una giovane donna rapita dal fondamentalismo dopo una vita disordinata si ripresenta. La sua famiglia però non si rassegna. «A Nicole piaceva viaggiare», racconterà sua zia ai giornali. «Lei era così, partiva per settimane in Ohio senza avvisare e non si sapeva mai dov’era». Basta la propensione al viaggio a finire ammazzati a trentatrè anni in mezzo alla guerra civile siriana? «Era una ragazza pacifica, che cercava sempre di rendere felici gli altri, credo che sia andata là e le abbiano fatto il lavaggio del cervello».
Eppure, dirà sua nonna, che l’aveva cresciuta dopo il divorzio dei genitori, Nicole non era una ragazza debole. I parenti raccontano di uno strano viaggio a Dubai e poi del breve matrimonio con un musulmano mai entrato in famiglia, forse finalizzato solo a ottenere una green card. Quattro o cinque anni fa l’abbandono della religione battista e la conversione al Corano, il nuovo indirizzo di posta elettronica con un nuovo nome, la frequentazione assidua della moschea. La nonna adombra l’ipotesi che le sia stata offerta una ricompensa economica. La figlia 18enne si dice certa: «Mia madre non era una terrorista».

legge-burqa-islam-occidente-jihadSotto lo stesso tetto
Non era una terrorista ma di sicuro viveva sotto lo stesso tetto di una terrorista un’altra ragazza americana dalla storia ambigua ma significativa. Katherine Russell, 24 anni, è la moglie di Tamerlan Tsamev uno degli attentatori della maratona di Boston, autori di un’azione compiuta con oggetti domestici (a cominciare da una pentola a pressione) e costata la vita nella primavera scorsa a tre persone e ferite gravi a oltre 200. La storia di Katherine ha trovato spazio nelle pagine dei giornali anche se le impronte femminili trovate sul materiale che sarebbe servito a fabbricare l’ordigno non sono sue. Molto probabilmente però la costruzione è avvenuta in casa sua e le frequentazioni pericolose del giovane marito non potevano esserle sfuggite. O forse sì?

Se non c’è ombra del “lavaggio del cervello” arrivato alla follia mortale della giovane Muriel, quanto quel matrimonio ha reso “cieca” la bella Katherine, incapace di vedere ciò che stava accadendo al padre della sua bambina di tre anni? In attesa che i tasselli di questo puzzle si compongano per restituire un racconto veritiero le immagini di questa ragazza rappresentano sinteticamente le sue due vite. Da un lato c’è il ritratto dell’annuario scolastico, dove Katherine è un’adolescente di quelle che si vedono nei telefilm americani. Dall’altro le immagini del volto scavato dopo i giorni dell’attentato, il capo coperto dall’hijab. Da un lato la grande casa di Rhode Island, la tranquillità agiata del verde quartiere residenziale americano in cui i genitori, lui medico lei infermiera, hanno tirato su Katherine e le sue due sorelle.
Dall’altro la casa squallida di Cambridge, Massachusetts, dove aveva scelto di vivere con Tamerlan. Si erano incontrati all’università. Lui parlava molte lingue, una personalità forte, giovane ma col fascino di un uomo. Il giorno in cui si sono sposati c’erano solo loro due e due testimoni, un pomeriggio caldissimo di giugno. Dopo i fatti di Boston Katherine è tornata dai suoi genitori. Il corpo del marito ha voluto che fosse restituito alla sua famiglia di origine. Forse è una presa di distanza dal mondo che l’ha affascinata e tradita, forse solo il gesto di una mamma che ha altro a cui pensare. Perché ora sono solo in due: lei e la figlia di tre anni nata dal suo matrimonio.

Fonte: Giovani, carine e fondamentaliste: occidentali e jihad | Tempi.it.

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