Gli jihadisti sono già in mezzo a noi | La Nuova Bussola Quotidiana

di Gianandrea Gaiani13-10-2014

La notizia è di quelle che dovrebbero imporre risposte rapide e drastici cambi di rotta ai leader del Vecchio Continente ma in un’epoca dominata dal “politically correct” (che in italiano si traduce col termine “ipocrisia”) probabilmente farà fatica a occupare uno spazio adeguato su molti media.

Solo a Londra sono “migliaia” i sospetti terroristi islamici sorvegliati da Scotland Yard e dal controspionaggio (MI-5) di Sua Maestà. A rivelarlo in un’intervista al Telegraph è il sindaco della capitale britannica Boris Johnson, lasciando intendere che la minaccia dell’estremismo islamico sia molto più grande di quanto ammesso finora. Nel Regno Unito, come in tutto l’Occidente, resta alta l’allerta in vista di possibili attentati organizzati dai jihadisti o da cellule di simpatizzanti dello Stato Islamico o di altri gruppi del jihadismo mondiale inclusi quelli legati ad al-Qaeda. Mentre i servizi di sicurezza europei e occidentali paventano spesso i rischi costituiti dal rientro di alcune migliaia di jihadisti che in Siria hanno combattuto contro le forze governative di Bashar Assad, un profilo più sfumato sembra venga mantenuto circa la ben più consistente minaccia portata nelle nostre città dai tanti simpatizzanti del Califfato o del jihad. Uomini che non sono mai andati a combattere in Siria, ma che sarebbero pronti a colpire con azioni terroristiche nei paesi che li ospitano, a volte dopo avergli dato pure la cittadinanza.

Le autorità britanniche valutano che siano circa 500 le persone che hanno lasciato il Paese per unirsi allo Stato Islamico e formazioni qaediste, la metà dei quali sarebbero poi rientrati in patria.

«L’allarme a Londra è particolarmente alto perché probabilmente un terzo, se non la metà di questi combattenti provengono proprio dall’area della capitale», ma per il sindaco di Londra la minaccia rappresentata dai complotti terroristici ideati in patria è molto più grande numericamente rispetto al numero piuttosto esiguo degli estremisti che sono andati a combattere all’estero. «A Londra siamo molto vigili e anche molto preoccupati – ha aggiunto Johnson – Ogni giorno, come avete visto recentemente, abbiamo dovuto alzare il livello di allerta, i servizi di intelligence sono stati impiegati in migliaia di operazioni». Complessivamente, a Londra, ha riferito il sindaco, sarebbero «alcune migliaia le persone che stiamo tenendo sotto controllo». Ad agosto il livello di allerta terrorismo nel Regno Unito è stato elevato da “sostanziale” a “grave”, proprio per la minaccia rappresentata dal ritorno dei jihadisti britannici. Nei giorni scorsi la polizia britannica ha reso noto che un quinto uomo è finito in custodia dopo le retate antiterrorismo condotti a Londra martedì scorso. L’uomo, di cui non è stata rivelata l’identità, ha 21 anni. La custodia dei cinque sospetti terroristi è stata prolungata dalle autorità fino al 14 ottobre.

L’esempio di Londra e più in generale l’allarme per i fans dell’estremismo islamico presenti in Gran Bretagna, Francia, Belgio e altri Paesi europei dovrebbe indurre i governi a qualche riflessione circa i rischi della massiccia immigrazione islamica nel Vecchio Continente e della crescente difficoltà di integrare comunità spesso presenti in Europa da due o tre generazioni.

Le interviste raccolte a jihadisti andati a combattere in Siria non lasciano spazio a dubbi: difendono la lotta contro il regime di Bashar al-Assad a fianco del popolo siriano e contestano la decisione dei loro Paesi d’origine di unirsi alla Coalizione internazionale. «Non odio l’America, è la mia patria, è dove sono nato» ha spiegato il jihadista somalo-americano Ibn Zubayr unitosi ai qaedisti del Fronte al-Nusra e intervistato dalla Cbs. Zubayr annuncia i possibili attacchi all’Occidente da parte dei miliziani che in Siria vengono colpiti dai propri Paesi di origine. Parlando di un possibile prossimo attentato contro gli Stati Uniti, Ibn Zubayr specifica che «non lo considererei un attacco terroristico. Lo considererei una reazione a questa azione di guerra», ovvero ai raid della coalizione che, dice, hanno ucciso suoi «amici stretti». «Quello che considero un attacco terroristico sono queste bombe che uccidono persone innocenti» prosegue. A fargli eco è il miliziano australiano Abu Osama che si è unito a un altro gruppo, quello di Jund al-Aqsa, e che in un’intervista all’emittente di Canberra Seven News chiede «qual è la differenza tra un missile che colpisce una casa e uccide 15 bambini e un uomo che muore con la gola sgozzata?».

Parlando della decisione del suo Paese di unirsi alla Coalizione, il miliziano dice di essere «triste nel vedere che l’Australia ha preso questa decisione, quella di venire in un Paese senza motivo, perché questo provocherà una reazione. Porterà la popolazione a odiare» l’Australia. La stessa emittente australiana ha poi intervistato un gruppo di jihadisti olandesi in Siria che si ispira allo Stato islamico. «Tutti i fratelli che imbracciano un’arma sono miei fratelli» dice uno di loro in fluente inglese.

Frasi che non sorprendono pronunciate da uomini che combattono una feroce guerra ideologica e religiosa, ma se a questi si aggiungono anche migliaia di terroristi che non appartengono ai cosiddetti “foreign fighters” ma sono cittadini che non hanno mai lasciato l’Occidente allora la minaccia si allarga configurando un possibile fronte interno all’Occidente caratterizzato non solo dal terrorismo, ma anche dal rischio di insurrezione e guerriglia.

Del resto non c’è da stupirsi dell’allarme lanciato dal sindaco di Londra dal momento che proprio nella capitale britannica le autorità tollerano da anni che interi quartieri vengano amministrati dalla sharia per gli affari locali delle comunità islamiche. Rinunciare alla propria sovranità non aiuta l’integrazione, ma induce gli islamisti a sfruttare la nostra debolezza che ci ostiniamo a definire tolleranza.

Forse si tratta di riflessioni poco “politicamente corrette”, ma che è necessario pretendere da chi dovrebbe garantire con l’azione di governo la nostra sicurezza collettiva. Riflessioni di cui purtroppo non v’è traccia in buona parte dell’Occidente benché i segnali di tensioni tornino a registrarsi nelle periferie di alcune città in Francia, Belgio, Svezia e in altri Paesi europei. Proprio il confronto militare tra la Coalizione e lo Stato Islamico (che gode di tantissimi ammiratori e fan anche in Europa) potrebbe dare fuoco alle polveri provocando il primo jihad proclamato contro di noi dall’interno di un Paese europeo. Un’ipotesi che negli ambienti dell’intelligence viene considerata inevitabile, ma anche imminente, tenuto conto che le monarchie del Golfo che hanno armato e finanziato l’IS sono le stesse che hanno investito decine di miliardi di euro in Europa finanziando e gestendo anche i centri di cultura islamica disseminati nelle diverse città.

A Londra non mancano gli accenni di reazione come l’appello dall’avvocato Mark Lewis e da un gruppo di rappresentanti politici e attivisti che chiedono il boicottaggio dei lussuosi grandi magazzini Harrod’s accusandone il proprietario, la Qatar Holdings, gestita dal governo di Doha, di sostenere il terrorismo islamico.

Lewis ha ricordato come le operazioni del Qatar nel Regno Unito riguardino i più diversi settori, dalla proprietà dello Shard, il grattacielo più alto della capitale, a molte società. «La maggior parte di noi non realizza che stiamo investendo nelle sue operazioni terroristiche» ha affermato il legale. Accuse molto forti che vengono smentite categoricamente dal Paese del Golfo. Ma il “movimento” anti-Harrods sta crescendo. Simon Cobbs, di un’associazione inglese filo-israeliana, e la baronessa Cox, fondatrice di un’organizzazione umanitaria internazionale, hanno dato il loro sostegno all’iniziativa. Sul fronte politico si muovono alcuni deputati che chiedono al governo di fare chiarezza sui legami commerciali col Qatar. In particolare criticano il fatto che la “lista nera” del ministero del Tesoro Usa contenga almeno sette nomi di estremisti legati al Qatar mentre in quella di Londra ne risulti solo uno. «Siamo forse accecati dai nostri interessi commerciali?», si è chiesto il deputato tory Mike Freer. E un altro deputato conservatore, Stephen Barclay, ha promesso che farà presente al governo le forti preoccupazioni che ci sono fra i membri del Parlamento sulle relazioni col Paese arabo.

E non è finita qui. Un importante finanziatore di al-Qaeda lavorava per il governo del Qatar nonostante il suo nome fosse stato inserito dagli Stati Uniti nella lista nera dei terroristi. Lo ha rivelato un’inchiesta del Telegraph, citando fonti e documenti Usa. Salim Hasan Khalifa al-Kuwari, questo il nome dell’uomo, ha fatto arrivare «centinaia di migliaia di dollari di finanziamenti» e fornito supporto logistico al gruppo terroristico mentre lavorava per il ministero dell’Interno dell’emirato, secondo documenti ufficiali del Tesoro Usa. Il 37enne al-Kuwari, scrive il quotidiano britannico, è stato fermato e interrogato due volte dalle autorità dell’emirato per reati di terrorismo. La prima volta nel 2009, quando lavorava per il dipartimento della difesa civile del ministero dell’Interno. Rilasciato, fu confermato nel suo incarico. Un nuovo fermo avvenne invece nel 2011. A quanto risulta, l’uomo si troverebbe ancora a piede libero a Doha. Le autorità dell’emirato si sono rifiutate di rispondere alle domande del quotidiano britannico riguardo al suo status. Secondo fonti Usa, il Qatar ha soppiantato l’Arabia Saudita quale fonte principale di donazioni private ai jihadisti dello Stato Islamico e ad al-Qaeda. Qualche domanda circa i capitali e le persone a cui spalanchiamo le nostre porte dovremmo cominciare a porcela, cercando magari anche di dare risposte efficaci e in tempi brevi.

Così la Sicilia sta diventando un emirato di Valentina Colombo

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