IL CASO/ Perché il Tar decide che è meglio morire che vivere da malato?

Paola Binetti

Ancora una volta la magistratura ci ha sorpreso e ci ha spiazzato, intervenendo in un campo delicatissimo come quello della tutela della salute umana con un approccio decisamente in controtendenza rispetto a quella che è stata fino ad ora la prassi giuridica. C’è una magistratura i cui  interventi sembrano dettati a volte da una carenza legislativa, o almeno da una presunta carenza, come è accaduto nel caso di Eluana Englaro o più recentemente nel caso dei malati che si sono rivolti alla fondazione Stamina. Altre volte invece certi interventi della magistratura sono dettati da una interpretazione della legge che sembra contraddire lo spirito stesso della legge, come è ripetutamente accaduto per la legge 40. E su questo voglio soffermarmi, una volta di più, come ormai faccio ininterrottamente da una decina d’anni, da quando, cioè in qualità di presidente della Associazione Scienza & Vita, mi sono trovata a difendere la legge 40 in occasione dei famosi referendum radicali.

Pochi giorni fa infatti il giudice Donatella Galterio della prima sezione civile del tribunale di Roma, ha autorizzato la diagnosi pre-impianto ad una coppia portatrice di fibrosi cistica, in vista di una fecondazione assistita. Il giudice, recependo una sentenza del febbraio scorso emessa dalla Corte di Strasburgo, ha ordinato il via libera alla diagnosi pre-impianto a spese del Servizio sanitario nazionale, disapplicando così la legge 40 sulla procreazione assistita che vieta tale analisi.

La motivazione del divieto va ricercata proprio nella tutela della vita, di ogni vita, in qualunque condizioni versi, ovviamente una tutela tanto più intensa e concreta quanto più è fragile e bisognosa di cure quella vita. Si sottolinea quindi il diritto alle cure, come prevede la nostra Costituzione nel famoso articolo 32, comma 1.

Il giudice Donatella Galterio, accogliendo il ricorso d’urgenza, ha dichiarato “il diritto dei signori Rosetta Costa e Walter Pavan a sottoporsi al procedimento di procreazione medicalmente assistita con trasferimento in utero della signora Costa, previo esame clinico e diagnostico degli embrioni creati tramite fecondazione in vitro, solo degli embrioni sani o portatori sani rispetto alla patologia da cui sono affette le parti mediante le metodologie previste dalla scienza medica e con crioconservazione degli embrioni malati sino all’esito della tutela di merito”.

Da qui l’ordine “all’Asl Rm A, o direttamente o avvalendosi di altre strutture specializzate, ad eseguire i suddetti trattamenti”. Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni, l’ha immediatamente definita “una sentenza importantissima, perché per la prima volta la legge 40 viene fattivamente disapplicata facendo seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. E ora non c’è più la necessità di attendere un intervento della Corte costituzionale”.

Il commento dell’avv. Gallo non stupisce, perché è da quando i radicali persero i famosi referendum che con martellante insistenza cerca di smontare la legge 40. Che tanto si rallegri per la disapplicazione della legge che ha avversato in tutti i modi possibili è un fatto del tutto prevedibile, una soddisfazione ex post, per aver visto bocciato quel famoso referendum con una partecipazione popolare di oltre il 75 per cento degli italiani. Ma è abbastanza sorprendente che un magistrato intervenga a prescrivere la mancata applicazione di una legge senza attendere l’intervento della Corte costituzionale, l’unica che in Italia ha il potere effettivo di stabilire la costituzionalità o meno di una legge, e lo faccia appellandosi alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che non ha valore precettivo.
Da 10 anni la legge 40 è sottoposta a costanti e continui attacchi da parte di una magistratura che si rifiuta di prendere atto che l’embrione è un soggetto che merita il massimo rispetto per la sua vita, anche se fosse malato. Sentenze come questa aumentano la confusione nell’interpretazione di una legge che ha solo bisogno di essere applicata nel pieno rispetto della vita e dei diritti di tutti, compreso l’embrione. Sulla diagnosi pre-impianto il giudice non può sostituirsi al legislatore. Anche questa situazione rivela una babele di linguaggi, di ruoli e di responsabilità, su cui è urgente fare chiarezza, per non consentire ulteriori abusi di posizione.

L’argomentazione utilizzata per giustificare la sentenza in sintesi ritiene che attraverso la diagnosi pre-impianto venga tutelato tanto il diritto all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti quanto il diritto alla salute fisica e psichica della donna che se dovesse subire l’impianto di embrioni geneticamente malati potrebbe andare incontro ad aborto o a vere e proprie patologie. Ma in tal modo il punto di vista assunto è solo quello esclusivo della madre e non certamente quello del bambino mai-nato.

Il rapporto tra biomedicina & bioetica, tra biogiuridica e biopolitica, sta diventando sempre più complesso e problematico, perché in un contesto tecnologicamente sempre più sofisticato la vita umana viene trattata come un oggetto, un prodotto come tanti altri, negando la sua specifica dignità e  privandola quindi della tutela che si deve a chi si trova in condizioni di estrema fragilità.

La vita umana ha valore in se stessa e il grado di maturità di un popolo si misura dalla qualità con cui sa elaborare fondamenti e applicazioni dell’etica della cura, indicatore e segno della dignità di ogni civiltà.

Il paradosso di una cultura orientata in senso eugenetico è che mentre procede lo sviluppo della scienza e della tecnica si riduce il diritto a venire al mondo se non si ha una sorta di certificato di garanzia.

Più diventano raffinate le indagini genetiche e si sviluppa la capacità di diagnosticare precocemente una patologia, meno diritto a nascere avranno coloro che vengono considerati prodotti non perfetti. La scienza invece di curare si arroga il diritto di selezionare e la giustizia invece di tutelare i più deboli si schiera dalla parte dei più forti, scartando i più deboli.

Il Papa, parlando pochi giorni fa a ginecologi di tutto il mondo, ha denunciato la “cultura dello scarto”, conseguenza diretta di una visione consumistica della vita umana, in cui si giudica e si soppesa il valore dei prodotti prima di immetterli sul mercato. Fine ultimo dell’agire medico è, e tale deve rimanere, la difesa e la promozione della vita; e questo richiede studio, coscienza e umanità, per non rendersi complici di una cultura che invece rifiuta la vita, solo perché necessita di più cure, di più attenzione e in definitiva di una maggiore competenza anche sul piano strettamente professionale.

Ai medici è quindi giunto un avvertimento concreto sulla “diffusa mentalità dell’utile, la cultura dello scarto, che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti”. Una cultura che, secondo Bergoglio, ha un altissimo costo, perché richiede di eliminare essere umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli. La nostra risposta a questa mentalità è un sì deciso e senza tentennamenti alla vita“.

La stampa, sempre pronta a rilanciare le parole del Papa, soprattutto quando si schiera dalla parte dei più poveri, dei disoccupati, di quei diseredati che occupano le periferie dell’esistenza, questa volta si è sottratta al compito di fare da altoparlante alle sue parole di denuncia.

Molti giornali hanno preferito tacere davanti alla tutela della vita embrionale con il suo fragile inizio ancora fuori dal grembo materno, una vita ancora senza parole, soprattutto quando i genitori non se ne prendono abbastanza cura, spaventati dalle conseguenze di una potenziale sofferenza e non si schierano dalla sua parte.

La dignità della vita fragile, nel suo nascere, ma anche tutto l’arco della sua esistenza è la vera sfida della nostra cultura e si misura anche con investimenti concreti sul pano della ricerca e della cura, sul piano della rete del sostegno sociale, necessario per non lasciare mai sole le famiglie, soprattutto quando hanno avuto il coraggio di accogliere la disabilità nelle sue molteplici forme. L’accompagnamento a queste famiglie inizia già nel momento in cui il rischio, prima ancora della stessa malattia, si profila all’orizzonte e si rende urgente e necessario un counseling genetico che accolga nel modo più opportuno ansie e preoccupazioni dei genitori.

La notte del 27 settembre è in molte città italiane la notte del ricercatore: un invito ad accostarsi alla ricerca con la sana curiosità di chi chiede alla scienza risposte concrete ai problemi dell’uomo di oggi, ai problemi della vita per incontrare soluzioni innovative.

Come presidente dell’intergruppo parlamentare sulle malattie rare voglio esprimere la massima solidarietà ai genitori portatori di malattie genetiche e sono impegnata in una serie di iniziative sul piano politico-economico, che individuino risorse adeguate per la ricerca nel campo delle malattie genetiche. Ma la ricerca che sosteniamo è quella a favore della vita, non quella che si limita a identificare le vite difettose, quelle da scartare, per intenderci. La ricerca deve essere al servizio della vita e non servirsi della vita per i suoi esperimenti. Ogni genitore ha diritto di desiderare un figlio sano, nella speranza che la salute sia per lui fonte di felicità, ma il pur legittimo desiderio dei genitori non può trasformarsi nel diritto di decidere chi far nascere e chi no, giudicando quali siano le vite che meritano di essere vissute e quali no!

E allora ben venga l’iniziativa che ha impegnato tanti Paesi dell’Unione europea in una recente campagna: “L’embrione, uno di noi”, per cui è stato raccolto oltre un milione di firme per una legge di iniziativa popolare che tuteli il riconoscimento giuridico dell’embrione.

Anche noi, che da sempre stiamo dalla parte della vita, vogliamo una legge più coerente, che abbia gli stessi standard in Europa, per questo sono stati mobilitati i ventisette Paesi della Ue che hanno raccolto il milione di firme necessario a far intervenire il legislatore europeo sulla questione della vita nascente.

Alla base della sfida c’è l’idea di non rassegnarsi all’idea che l’aborto sia un fatto ineluttabile e diffondere un chiaro messaggio a favore della tutela assoluta del concepito, senza subordinare il suo diritto a nascere all’onere della prova di chi sa di dover essere geneticamente perfetto per poter iniziare ad avere diritti, compreso quello della vita.

Fonte: IL CASO/ Perché il Tar decide che è meglio morire che vivere da malato?.

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