Il martirio di monsignor Prennushi, Thomas Becket d’Albania | Tempi.it

marzo 21, 2014 Silvia Guidi

Francescano, sacerdote e primate del paese, fu fatto uccidere da Hoxha il 19 marzo del 1949 dopo che si era rifiutato di fondare una Chiesa nazionale antagonista a Roma. Ora la sua storia è un dramma teatrale

prennushiArticolo tratto dall’Osservatore Romano – «La letteratura autentica e le dittature sono incompatibili, lo scrittore è nemico naturale delle dittature» scrive Ismail Kadare, parlando dei tanti dissidenti albanesi perseguitati e uccisi dal regime di Enver Hoxha.

Il servo di Dio Nikolle Vinçenc Prennushi non era solo uno scrittore di talento, abile nel far rivivere sulla pagina il ricco patrimonio folclorico del suo Paese, era anche un frate francescano, un sacerdote e un pastore. A Durazzo lo chiamano il Thomas Becket d’Albania; Prennushi morì il 19 marzo (ma la data non è certa) del 1949 per non aver acconsentito alla richiesta di Hoxha di formare una Chiesa nazionale, antagonista alla Chiesa di Roma. Era diventato primate di Albania nel 1946, dopo l’uccisione di monsignor Gaspër Thaçi e si trovò a condividere la stessa sorte del predecessore.

Il 16 agosto del 1944 durante la processione per la festa di san Rocco che si svolge a Shiroka, un villaggio sulle sponde del lago di Scutari, don Ndre Zadeja disse ai fedeli: «Due parole devo dire oggi a voi, specialmente a voi giovani; una nuvola nera sta per piombare sulle vostre teste. La sua intenzione è quella di scaricarsi su di voi. Allora non potrete fare niente contro di essa, solo sopportarla con tutti i suoi mali, e tra questi la negazione di Dio». Zadeja pronunciò queste parole circa sette mesi prima di essere fucilato, primo tra i sacerdoti di Scutari, dietro il muro del cimitero cattolico, domenica 25 marzo 1945. Iniziò così la grande persecuzione.

Tra le prime cose che il Governo fece contro la Chiesa fu rifiutare l’ingresso al nunzio apostolico, monsignor Leone Giovanni Battista Nigris, di ritorno da Roma. Thaçi e Prennushi furono chiamati da Enver Hoxha per cercare una collaborazione a condizione che si staccassero dalla Santa Sede; tutti e due rifiutarono la proposta.

Dopo la morte di Thaçi e l’eliminazione di Prennushi, condannato a vent’anni di carcere duro e morto per le torture subite, Hoxha fece un altro tentativo rinnovando la proposta a monsignor Frano Gjini. Ma ebbe la stessa risposta: «Non separerò mai il mio gregge dal Papa».

Prennushi era nato a Scutari il 4 settembre 1885; aveva studiato fino al liceo presso il collegio dei francescani a Troshan, perfezionandosi in teologia in Austria. Celebrò la prima messa il 25 marzo 1908; fu direttore della tipografia francescana, direttore del collegio francescano e due volte provinciale; nel 1936 viene consacrato vescovo di Sapa e poi nominato arcivescovo di Durazzo. Alla sua storia è ispirata la piéce teatrale Il petalo e il fiore, nata dal terreno della mostra allestita nel 2012 a Rimini (e ancora in tournée, in Italia e all’estero) «Albania, athleta Christi. Alle radici della libertà di un popolo». Nell’approfondirsi dell’amicizia con i curatori, spiega l’autore, Francesco Marchitti, «avvicinandomi alla storia della loro terra, sono emersi innumerevoli materiali originali: racconti densi e brani di vita, domande di significato e di identità; incontri e risposte vissute. La storia albanese è un dramma intenso, più volte divenuto tragedia. Ecco il seme del teatro, nel senso più tradizionale del termine: è la rappresentazione di una “tragedia” quale storia di una comunità e di un popolo. Il dialogo tra i due protagonisti — il dittatore Enver Hoxha e il prelato Vinçenc Prennushi — racchiude e simboleggia l’intera narrazione: la dittatura tenta di asservire a sé la Chiesa, e l’inevitabile rifiuto scatena una violenza tanto palese quanto feroce. Arriva la condanna a morte, ma non sarà l’ultima parola. Il deus ex machina del dramma è l’anima stessa del popolo albanese, che nella profezia di santità dei suoi martiri dice che il destino non è la morte ma la vita, e la riconquista piena della vera identità. Il petalo e il fiore, nel suo sbocciare e ritrovarsi in scena, è un omaggio agli amici albanesi, alla loro terra, alla loro storia».

Una sorta di «assassinio nella cattedrale ambientato a Durazzo», lo definisce Antonio Zanoletti, che ne ha curato la messa in scena assieme a Fabio Sarti (Vinçenc Prennushi), Dhurata Vrenozi ed Emilio Zanetti (Enver Hoxha). «Alla base di questo testo c’è uno scontro fra l’uomo religioso e il potere politico, un po’ come nel profetico dramma di Eliot — continua Zanoletti, reduce da L’Amore crocifisso, dedicato ad Angela da Foligno, andato in scena al festival di San Miniato, la scorsa stagione — un legame, un rapporto-contrasto tra i problemi di una coscienza individuale e collettiva di tutto un popolo, che deve fare i conti con le ragioni di una politica totalitaria. Un brandello lacerante e lacerato di storia di una terra tenuto per troppo tempo in ombra, che urge e chiede di essere conosciuto. Il teatro ci viene in aiuto. Il teatro nasce dove vuole nascere. Oggi più che mai deve restare quel che è sempre stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità, liberamente riunita, si rivela a se stessa. Altrimenti, come direbbe Testori, è cenere e niente».

Il bello del mio lavoro, sottolinea Zanoletti, «non è tanto esibirmi in una vetrina a mio uso e consumo, quanto restituire il contenuto del testo. Ogni nome che pronunci è un mondo che evochi». Una consapevolezza “vocazionale” che viene da lontano, dagli anni dell’infanzia, segnati da un rapido scambio di battute con Papa Montini. «Paolo VI l’ho conosciuto personalmente; ero piccolo ma ci tenevo a dire la mia. Io voglio fare l’attore! Ho gridato quando è venuto in visita pastorale a Varese. Vedi di farlo però! mi ha risposto lui».

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