Il primo “cattivo maestro” è il pensiero debole

di Giovanni Fighera

Oggi va di moda il pensiero debole. Questa non è una novità. Farsi portavoci di proposte forti appare agli occhi di tanti anacronistico, soprattutto nell’epoca del relativismo culturale, in cui sono messi in discussione la verità, la bellezza, l’amore, la bontà. Se vengono a mancare questi ultimi riferimenti, tutti riconducibili al campo della verità nei differenti campi (conoscenza e cultura, estetica, affettività, etica), decade ex abrupto anche la necessità dell’educazione. Il termine «educazione», infatti, ha in sé il verbo latino ducere che significa «condurre». Se non c’è una meta riconosciuta, se non esistono una bontà, una bellezza, una verità, un amore a cui essere educati, non ha senso il rischio dell’educazione. Al massimo ci potranno essere degli informatori o dei mediatori di conoscenza.

«Eppure, chi di noi padri, arrivato alla sua età, con la propria esperienza, può negare a se stesso la verità, e cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’educazione (intesa in un senso molto più ampio della semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri ragazzi? E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?». Da questa domanda parte l’interessante percorso del giornalista Antonio Polito che in Contro i papà analizza «come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli» (sottotitolo del libro).

«Abbiamo costruito un modello sociale ed economico tutto teso a rendere la vita facile ai nostri ragazzi […]. In nome dei nostri figli li abbiamo rovinati». Abbiamo costruito un lungo catalogo dei loro diritti, dal «posto di lavoro stabile» e «adeguato alle loro aspirazioni» alla possibilità di essere fuori corso all’università (che deve rigorosamente essere nel raggio di venti chilometri da casa). «I nostri figli non devono mantenersi agli studi, perché lo Stato chiede a ciascuno di loro soltanto tra i mille e i duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre in media ne spende settemila. Dunque a pagarli ci pensa la fiscalità generale, cioè le tasse pagate anche da chi i figli all’università non li manda». Tra l’altro il livello dell’università è sceso in maniera impietosa e i voti sono saliti. Ad essere deprezzato è il merito. Quanto più i titoli sono omologati ed uguali tanto più non contano nulla nella ricerca del lavoro.

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