Intervenire in difesa dei cristiani. Il Vaticano lo chiede| La Nuova Bussola Quotidiana

di Stefano Magni 17-03-2015

“Queste sono chiese cristiane. I cristiani sono perseguitati, i nostri fratelli sanguinano per il solo fatto di essere cristiani. Prego Dio che la persecuzione contro i cristiani, che il mondo sta cercando di nascondere, giunga alla fine”. In queste frasi pronunciate da Papa Francesco, nel corso dell’Angelus di domenica, poco dopo la morte di 15 cristiani pakistani al seguito di un attentato, leggiamo un messaggio ecumenico e una condanna all’indifferenza del mondo. “Questa sono chiese cristiane”, una protestante e una cattolica, ma unite in quello che il Papa ha già definito “ecumenismo del sangue”. Come ha ribadito domenica: “Non c’è differenza se sono cattolici, ortodossi, copti o protestanti. I martiri sono di tutti i cristiani”. “Il mondo sta cercando di nascondere” o per lo meno di ignorare quella che si sta configurando la più vasta persecuzione religiosa del mondo, soprattutto nei paesi a governo islamico e maggioranza musulmana (come in Pakistan, appunto), ma anche nei regimi comunisti e nella democratica India.

Le parole di Papa Francesco sono coerenti con i toni decisi dell’osservatore della Santa Sede all’Onu, a Ginevra, monsignor Silvano Tomasi. Due giorni prima dell’attentato, il 13 marzo, aveva presentato al Consiglio dei Diritti Umani la dichiarazione Supporting the Human Rights of Christians and Other Communities, particularly in the Middle East (Sostenere i diritti umani dei cristiani e di altre comunità, in particolar modo nel Medio Oriente), assieme a Russia e Libano. “Dobbiamo fermare questo genocidio”, aveva dichiarato l’arcivescovo alla testata statunitense Crux, nel giorno della presentazione del documento. “Altrimenti, in futuro, piangeremo per quanto non abbiamo fatto, per quanto abbiamo permesso a una simile tragedia di compiersi”. La dichiarazione, secondo Tomasi, deve prima di tutto sensibilizzare la comunità internazionale, affinché sempre più paesi inviino aiuti ai cristiani e alle altre minoranze oppresse dall’Isis in Siria e in Iraq, “così che possano sopravvivere e difendere i loro diritti”. Ma lo scopo politico è soprattutto quello di costituire una coalizione, la più ampia possibile, che fermi il genocidio. Finché possibile con le armi della politica, ma “se non dovesse risultare possibile, usare la forza diverrebbe necessario”.

“Sarà compito delle Nazioni Unite e dei suoi stati membri, specialmente quelli che fanno parte del Consiglio di Sicurezza, a determinare quale tipo di intervento sia necessario. Ma la responsabilità ad agire è chiara”, ha precisato l’arcivescovo Tomasi. Spiegando anche che un intervento militare in difesa di minoranze perseguitate è “una dottrina sviluppata sia nell’ambito delle Nazioni Unite che nell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica”. Non si tratta di una novità assoluta, ma, come spiega l’osservatore della Santa Sede, è comunque la prima volta che il problema della persecuzione dei cristiani viene presentato al Consiglio per i Diritti Umani. La dichiarazione è stata scritta assieme alla Russia, che si considera come il tradizionale difensore del cristianesimo ortodosso in Medio Oriente e assieme al Libano, dove i cristiani giocano tuttora un ruolo di primo piano e coesistono da secoli con i musulmani, nel bene e nel male. La dichiarazione, comunque, non resta limitata a questi tre proponenti: è già stata firmata da 70 paesi.

Questi argomenti, che aprono alla possibilità di una guerra giusta non sono affatto nuovi nella storia recente del Vaticano. Nel caso della persecuzione dei cristiani in Iraq e Siria, Papa Francesco si è dimostrato più attivo dell’Onu e sulla possibilità di un intervento armato, per quanto considerato come una extrema ratio, la Santa Sede l’ha ribadita anche il mese scorso. Di che stupirsi, dunque? A dire il vero, l’unica cosa che dovrebbe stupire è lo stesso stupore dei media, che hanno accolto e commentato le parole di Tomasi come una sorta di svolta rispetto al “pacifismo” della Chiesa e di Papa Francesco in particolare. Stupisce soprattutto quei commentatori che hanno condannato il “silenzio” del Papa sul massacro dei cristiani.

Quel che passa inosservata, piuttosto, è l’inerzia dell’Onu, che non ha saputo far nulla per proteggere minoranze intere e un immenso patrimonio artistico dell’umanità dalle mani dei genocidi dell’Isis. Il Vaticano non ha un esercito. Anche ai tempi in cui lo aveva, il suo contributo era più diplomatico (mettere in piedi una coalizione) che militare (mandare un proprio contingente). Nell’ultimo secolo e mezzo di storia, il ruolo del Vaticano è unicamente diplomatico. La voce della Santa Sede può esortare a proteggere i cristiani, ma occorre qualche governo che la ascolti. Fino al primo quarto del Novecento, i vertici delle maggiori potenze europee si consideravano ancora responsabili per la vita e i diritti dei cristiani nel mondo. Nel corso del Novecento, però, vuoi per sfinimento dopo le guerre mondiali, vuoi per ideologia, vuoi per l’arbitraria identificazione della causa in difesa dei cristiani con il colonialismo, questa sensibilità è venuta meno. Anche in questi due anni drammatici, la voce della diplomazia vaticana non ha mai taciuto. E’ semmai la comunità internazionale che, finora, si è tappata le orecchie.

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