Intervista a Franco Cardini, 20/1/2012

Intervista a Franco Cardini, 20/1/2012

Settimanale della Diocesi di Como

> 1. Lei sarà il 21 gennaio p.v.   a Como per parlare delle radici cristiane dell’Europa,
> nell’ambito di un corso multidisciplinare che, come titolo, parafrasa
> un’idea di Benedetto Croce:«Perchè non possiamo non dirci cristiani».
> Dove sta andando l’Europa di oggi? Alcuni anni fa il dibattito sulla
> Carta europea aveva sollecitato un confronto, a tratti aspro,
> sull’opportunità  di fare riferimento alle radici cristiane nel testo
> costitutivo dell’Unione: dove sono finite quelle riflessioni?

FC – A proposito dell’Europa di oggi, in me il pessimismo della mente combatte contro l’ottimismo del cuore. Sono un vecchio europeista (settantenne, lo ero già mezzo secolo fa). Mi è sembrato di essere a un passo dall’Europa unita, al tempo di de Gasperi e di Adenauer: un’Europa che sarebbe nata  già dimezzata, in quanto per metà era ancora soggetta all’URSS mentre d’altra parte sapevamo tutti bene che la nostra adesione al “Patto Atlantico” configurava purtroppo già, per noialtri europei, una “sovranità limitata”, sia pure certo meno oppressiva. Oggi constato il fallimento dell’Eurolandia, che ci ha dato una moneta comune (obiettivo in sé ottimo, ma che non era primario rispetto all’unità politica e all’indipendenza continentale) ma non ci ha dotati di una coscienza civile comunitaria, di un “patriottismo europeo”. Il conseguire tale traguardo sarebbe stato invece primario proprio per noi cattolici, in quanto la tradizione europea (rispetto a quella liberal-liberista-libertaria statunitense), per quanto segnata dal processo di secolarizzazione che si è avviato fin dal XVI secolo ed è divenuto a quel che sembra irreversibile dal XVIII ,  resta profondamente segnata da un carattere solidaristico e comunitario finché si vuole laicizzato, ma senza dubbio esito della sua lunga e indelebile tradizione cristiana. Credo che obiettivamente il tema delle radici cristiane d’Europa sia ambiguo per due motivi: primo, per prendere posizione chiara si dovrebbe aver altrettanto chiaro il concetto di “radici”, condizione questa che non mi sembra presente; secondo, richiamarsi a una tradizione cristiana può sembrare vago (quale cristianesimo? Il cattolico? Il riformato, l’ortodosso di varia tradizione greca o slava? Uno “spirito cristiano” libero da tradizioni e da confessioni, generico e confuso ma che pur esiste?). Tuttavia, se per “radici” s’intende il patrimonio storico-culturale profondo di una civiltà (senza alcuna implicazione né deterministico-evoluzionistica, né razzista), affidato a una “memoria collettiva” che si è appunto espressa concretamente nella sua storia, nelle sue istituzioni, nelle sue  strutture socioculturali, va detto che quelle cristiane (ereditate dalla civiltà ellenistico-romana nonché passate attraverso le profonde ridefinizioni della cristianizzazione dell’impero e della diffusione del cristianesimo disciplinativamente e liturgicamente “romano”  verificatasi in età carolingio-ottoniana e  configuratasi nella  possente costruzione scolastica: il cristianesimo latino delle cattedrali, delle università e del rinnovato diritto romano) sono vive e profonde (“radici che non gelano”), e che non si possono obiettivamente né tacere, né negare. Certo, non sono le uniche: non vanno dimenticati né l’antico e fondamentale apporto ellenistico-romano, né quelli “etnici” delle varie culture – celtica, germanica, slava, baltica, uraloaltaica  – che con esso s’incontrarono tra I e X secolo e che a loro volta entrarono in  successiva profonda relazione acculturativa con la tradizione cristiana, né la tradizione ebraica (sia quella insita nell’eredità veterotestamentaria accolta dal cristianesimo e ad esso intrinseca ed essenziale, sia  quella della cultura ebraica della diaspora: ma va detto che non esiste una civiltà “ebraico-cristiana”, se non nel preciso episodio delle comunità giudaicocristiane  vicinorientali esauritesi però entro il III-IV secolo), né quella musulmana, ch’è stata profonda e feconda in aree come la penisola iberica, al Sicilia, il sud-est europeo e che ha fornito all’Europa cristiana un fondamentale apporto in termini di cultura filosofico-scientifica, ereditata non solo dal mondo greco ma anche da quelli ebraico. Persiano, indiano e addirittura cinese, e passata all’Europa medievale attraverso i contatti economico-culturali e le traduzioni dall’arabo e dal persiano. Quindi, è forse scorretto affermare restrittivamente che “le radici culturali d’Europa sono cristiane”: si dovrebbe dire che “tra le radici culturali d’Europa, quelle cristiane (e oggi bisogna guardare non solo alla tradizione occidentale, latina, ma anche a quella orientale, ortodossa: i “due polmoni d’Europa, li ha definiti il grande Giovanni Paolo II)  sono essenziali, primarie e irrinunziabili”. In questo senso, oggi, va riletto il “manifesto romantico” Christenheit oder Europa di Novalis.  Negare tutto ciò è irragionevole e fazioso: irragionevolezza e faziosità, sovente d’origine anticlericale-anticattolica, che si è purtroppo affermata in quanti hanno impedito che la menzione delle “radici cristiane d’Europa” figurasse nella Carta Europea. Ma la battaglia, per noi europeisti cattolici, non è finita: è quella portata ancora avanti, senza mezzi e nonostante l’ostracismo mediatico, dall’Associazione Culturale “Identità Europea”, che ho contribuito anni fa a fondare e del quale faccio ancora parte. E dev’esser chiaro al riguardo che non condivido affatto né lo spirito, né la lettera del “Perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce. Il “cristianesimo” al quale il Croce si riferisce è – al pari di quello cui si riferiva il Gentile,  peraltro con ben differente profondità – quello di un’irrinunziabile tradizione culturale, appartenente tuttavia a una fase della nostra storia definitivamente conclusa e che ci ha lasciato solo una sia pur altissima eredità etico-individualista. Questo “cristianesimo agnostico-ateo” non può esser definito “cristianesimo” da nessun cristiano cosciente di che cosa significhi esser tale. Se non è radicato in una dimensione trascendente, se non è vivificato dalla fede, il “cristianesimo” non è nulla. Non cadiamo nell’equivoco dei “cristianisti” o degli “atei devoti”,  che del resto sono altrettante invenzioni politiche recenti ma alquanto effimere.

> 2. L’Europa di questi tempi è  ripiegata, preoccupata unicamente
> della stabilità dell’euro. Aver investito tutto sulle basi economiche,
> prima ancora che su quelle storiche, culturali, religiose, può aver
> minato la tenuta dell’intero sistema dell’Unione Europea?

FC – Credo che al riguardo sia giunto purtroppo il momento di parlar pacatamente, ma chiaramente. L’Unione Europea  concepita dalla grande tradizione europeistica di De Gasperi, di Adenauer, di Schuman, ma anche di molti altri – da Spinelli a de Gaulle – avrebbe dovuto, con molte variabili, essere una realtà fondamentalmente politica, di tipo federale o confederale. Quest’Europa non è mai nata: si è arenata nelle secche del naufragio della costruzione della CED (Comunità Europea di Difesa), e dal primato del fattore economico su tutti gli altri, avviato dalla costituzione nel 1957 della CEE (Comunità Economica Europea). Da allora, tutti gli altri aspetti della dinamica unitaria europea  – il politico, l’istituzionale, il giuridico, il militare, il culturale, l’etico – sono stati sottoposti alle esigenze economico-finanziarie che certo hanno generato successo, la moneta unica,  ma hanno dilazionato un’autentica unità sovranazionale, che avrebbe richiesto al rinunzia di una porzione della sovranità nazionale da parte di tutti gli stati aderenti all’unione e la costruzione di una vera autorità federale o confederale. Si sono moltiplicati di gli organismi  consultivi e di controllo, ma si è creato una “Europa” unita e dotata di poteri decisionali solo a livello economico-finanziario. Nel contempo, un organismo militare (e politico) egemonizzato da una grande potenza amica ma extraeuropea, gli Stati Uniti d’America, cioè la NATO, ha preso il posto della fallita CED. Ma ciò ha determinato una perdita obiettiva di sovranità e d’indipendenza militare (e quindi, fatalmente, politica) per tutta l’Europa, quindi l’impossibilità di sviluppare una politica estera comunitaria indipendente. L’Unione Europea attuale è un’unione di stati, non di popoli né di nazioni; essa è subordinata alla gestione dell’euro, la moneta unica pilotata da un organo a conduzione privata, la Banca Centrale Europea. Si è detto che l’Europa è un gigante economico-finanziario e un nano politico;  non possiede né una politica estera, né un’indipendenza militare (il territorio europeo è controllato non solo dalle basi NATO, ma addirittura da quelle direttamente ed esclusivamente statunitensi: quindi, da forse extraeuropee). La cartina di tornasole di questa Eurolandia, che non è ancora – e che di questo passo non sarà mai  – l’Europa unita,  è la mancata nascita di una base didattico-educativa comune nei paesi aderenti all’Unione: i giovanissimi europei non studiano una storia europea comune, conoscono una bandiera e un inno (che però non accompagna alle note beethoveniane dell’Ode alla Gioia di Schiller un testo che esprima comuni valori condivisi e adatti alla situazione contemporanea) ma non entrano in contatto con alcun valore che possa sostanzialmente fondare un sentimento civico europeo condiviso, un “patriottismo europeo”.  Quattro sono i fattori indispensabili per un’unione statuale di tipo nazionale o sovranazionale, federale o confederale che sia la sua costituzione: la bandiera (la sovranità,  l’indipendenza, i fondamenti costituzionali),  la toga (l’assetto giuridico e le istituzioni giuridsdizionali), la spada (l’indipendenza militare, senza la quale non si costruisce una politica estera e si rinunzia al ruolo internaizonale), la moneta (l’insipendenza aconomico-finanziaria, della quale la moneta è espressione, strumento e simbolo. Sono i quattro “semi” del gioco delle carte: il “cuore” politico, il “fiore” istituzionale, la “picca” militare, il denaro economico. Ma il centro e il fondamento, quelli da costruire e da affermare per primo, sono politici e istituzionali. La “casa comune europea” è stata costruita cominciando dal tetto,   la moneta unica gestita da una Banca Centrale che è privata, non pubblica, sottratta quindi al controllo del popolo europeo e in balìa di forze economico-finanziarie incontrollate e in parte perfino sconosciute. Ecco perché, lo dico con rabbia e con dolore, l’Europa “unita” nata negli Anni Cinquanta è stata una falsa partenza. Non si può certo gettar via quel ch’è stato fatto: ma all’euro e al Parlamento Europeo vanno dati un “cuore” che non hanno. Circa sessant’anni fa sono mancati il coraggio, la lucidità e la forza di unirsi sul serio: forse le potenze straniere lo avrebbero impedito; forse l’egoismo di molti politici dei singoli paesi europei non ha voluto cedere alla volontà di una comune istituzione quella parte di sovranità che sarebbe stato necessario cedere, ma che avrebbe fatto perdere potere alla “casta” politica (ma il risultato di queste piccole indipendenze nazionali, del resto perdute sotto il profilo economico); forse – se non certamente – mancava soprattutto una volontà comune europea, un sentimento comune. Una canzone studentesca del Sessantotto, dedicata a Jan Palach – il martire della “Primavera di Praga”, suicidatosi nel ’68 per protesta contro l’invasione sovietica del suo paese -,  diceva “il sogno d’un’Europa – non ha ancora trovato il suo poeta”. Forse, in fondo e al centro, il problema è proprio questo. Ma io, che ho ormai settantun anni, mi sento ancor oggi di augurare ai giovani e ai giovanissimi  di aver il coraggio di sognarla, contro la realtà perentoria di quest’ora di crisi, un’Europa del domani libera e unita, una Patria Europea. Come dice Francesco Guccini in quel bellissimo testo poetico che è il suo Cyrano, “Io sono solo un povero – cadetto di Guascogna – però non la sopporto – la gente che non sogna”. Senza soldi e senza potere, si può comunque sopravvivere. Ma senza sogni non si vive.
> 3.   Abbiamo vissuto, e stiamo vivendo, eventi epocali: le masse di
> migranti mosse dal terremoto della “primavera araba” (di cui in questi
> giorni ricorre il primo anniversario) ci hanno chiesto  e ci chiedono
>  passi importanti e atteggiamenti di apertura sul fronte
> dell’accoglienza e del dialogo interculturale e interreligioso. A che
> punto siamo nella nostra società  italiana e quanto ancora dobbiamo
> camminare su questa strada?

FC – Siamo indietro. La “primavera araba” è stata in larga misura uno slogan e un mito. E’ riuscita discretamente la ribellione tunisina a un potere violento e corrotto, ma i “poteri forti” internazionali/multinazionali  continuano ad aver bisogno del petrolio arabo e non hanno alcuna voglia  dio consentire che quel mondo trovi una sua  strada verso il futuro: dall’Egitto alla Libia all’Algeria alla penisola arabica il movimento innovatore è stato soffocato, tradito e imbrigliato; all’opinione pubblica europea si è fatto credere che il problema sia tutto in una possibile e auspicabile instaurazione di un “sistema democratico” all’occidentale, come se questo fosse il toccasana di tutti i mali, e  che l’unico ostacolo sia la persistenza di sistemi “dittatoriali” in Siria e in Iran. La realtà è molto diversa: dallo stesso cosiddetto fondamentalismo stanno nascendo spinte innovatrici, ma noi ci ostiniamo a non voler guardare alla realtà se non attraverso la lente deformante dei nostri pregiudizi e degli interessi delle nostre lobbies.  Intanto, questi interessi da un lato gestiscono lo sfruttamento delle fonti energetiche nei paesi asiatici, africani e latinoamericani, dall’altro lucrano sulla mobilità e quindi sulla manodopera offerta dalle migrazioni,  da un altro sostengono e incoraggiano da noi le istanze ispirate al pregiudizio e alla paura di quanti non comprendono le dinamiche della globalizzazione/mondializzazione e credono che sia possibile  gestire il decremento demografico europeo (frutto anche dell’egoismo e della caduta morale della nostra società) sfruttando la forza-lavoro dei migranti ma negando loro quei diritti e quegli spazi che, nel tempo, saranno suscettibili di creare nuovi equilibri e nuove sintesi nella nostra società.  Ai fautori della “identità ad ogni costo”, bisogna ricordare che le identità sono sempre relative, imperfette e dinamiche: e che pertanto debbono generazionalmente rinnovarsi puntando sulla tradizione e sulla continuità che sono essenziali, ma che vanno coniugate con il “cambiamento sostenibile”. Ai “tradizionalisti”, bisogna ricordare che “tradizione” e “conservazione” non sono valori  simili, bensì incompatibili. La tradizione è un valore vivo e dinamico: implica il cambiamento, ne ha bisogno. Altrimenti muore. Ai “progressisti-innovatori” ad ogni costo va ricordato che una memoria disordinata (cioè non ricondotta a valori sotrico-culturali) non serve a nulla, ma che senza memoria non esistiamo. La sclerosi o l’alzheimer culturali sono le due malattie che minacciano il cosiddetto “nostro Occidente”. Gli avversari sono sia coloro che s’illudono che tutto dovrebbe restare “come prima” (cioè come da quando?) e quelli – illusi essi stessi – che vorrebbero far tabula rasa di tutto nel nome dell’utopismo mondialistico-utilitario.

> 4. Le notizie che ci giungono dal continente africano sul
> difficilissimo rapporto fra cristiani e musulmani creano fibrillazioni
> anche alle nostre latitudini, specialmente quando si affrontano argomenti
> come l’opportunità  di individuare spazi per la pratica religiosa dei
> fedeli islamici. Cosa ci può² dire sul dialogo cattolico-islamico?

Che è naturale, tra due religioni monoteiste di ceppo abramitico che hanno una storia largamente comune, una morale largamente condivisa, un bisogno di convivenza effettivo. I cristiani sono almeno in teoria due miliardi, i musulmani uno e mezzo: insieme, quasi al metà della popolazione mondiale. Ma va anche detto che quasi la metà dei cristiani almeno ufficiali sono gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Canada e Australia, cioè quel miliardo circa di persone (il 20% dell’umanità)  che nel loro complesso – e nonostante giganteschi squilibri e vertiginose ingiustizie – detiene e gestisce il 90% delle ricchezze e risorse della terra, mentre il restante 80% (al quale appartengono quasi tutti i musulmani, a parte naturalmente i nababbi del petrolio e del sistema finanziario internazionale che sono musulmani culturalmente ma “occidentali” economico-finanziariamente) deve vivacchiare sul 10%.  Oggi nell’Islam esiste un nuovo, inedito anticristianesimo che si va diffondendo con caratteri anche di violenza, come si vede in Asia e in Africa: ma non bisogna dimenticare che in gran parte tale atteggiamento è determinato dal fatto che i propagandisti fondamentalisti hanno fatto credere a molta gente che i cristiani siano obiettivamente solidali con “l’Occidente”, cioè con gli eserciti che invadono i loro paesi e le lobbies che ne sfruttano materie prime ed economia.  Quanto a molti “occidentali”, il loro antislamismo fatto d’ignoranza e di pregiudizio si nasconde dietro il fantasma della “reciprocità”. Si dice: i musulmani saranno liberi di costruire le loro moschee in paese cristiano (o formalmente tale) quando i cristiani saranno liberi di costruire chiese nei paesi musulmani. E’ un’infamia e una sciocchezza. Per tre motivi. Primo: la nostra fede cristiana ed europea nella libertà di coscienza non può essere condizionata dall’assenza altrove di identica fede, ma dev’esser libera di esprimersi secondo i suoi convincimenti (il fatto che gli altri non accordino libertà non può esser alibi per negarla a nostra volta). Secondo: la libertà di culto per i cristiani esiste – sia pur variamente limitata in alcuni paesi dalla tradizione giuridica musulmana –  in quasi tutti i paesi a maggioranza islamica (esclusi alcuni che, guarda caso, sono come l’Arabia saudita più fedeli alleati politici, economici e militari dell’”Occidente”). Terzo: un’autentica reciprocità si può avere solo tra poli istituzionalmente affini e confrontabili, per esempio tra due stati o sue realtà ecclesiali che stabiliscano un accordo; ma l’Islam di per sé non ha istituzioni ecclesiali, non si può trattare con le autorità musulmane come si tratta con i responsabili delle istituzioni ecclesiali cristiane; né i singoli stati occidentali, realtà laiche, possono rappresnetare valori religiosi che intendano tutelare.  Ne deriva un assurdo: qualcuno vorrebbe impedire per esempio a lavoratori musulmani marocchini o albanesi di possedere una moschea e di esercitare liberamente il loro culto, in quanto il re dell’Arabia Saudita (che peraltro è tale in seguito alla volontà coloniale inglese stabilita negli Anni Venti e partner delle multinazionali petrolifere occidentali) proibisce l’apertura di chiese cristiane sul territorio che egli governa. Dico: ma perché certa gente lo sa quel che dice e quel che crede di pensare?
> 5.  Ci parli della sua ultima fatica editoriale: se non erro fa
> riferimento all’assedio di Vienna, vicenda storica nella quale gioca un
> ruolo chiave il nostro  papa comasco Innocenzo XI, di cui lo scorso
> anno ricorrevano i 400 anni dalla nascita.

FC – Il mio Il Turco a Vienna (Laterza) è un mattone di 777 pagine incentrato sull’assedio ottomano di Vienna del luglio-settembre 1683 e sul suo fallimento ad opera di una coalizione militare imperiale-polacca sostenuta fortemente dalla volontà di papa Innocenzo XI Odescalchi, che v’impiegò anche le cospicue risorse economiche della sua famiglia. Non è un lavoro di esclusiva storia tecnico-militare, come molti libri recenti o no sull’argomento: è un’ampia ricostruzione politico-diplomatico-culturale dei rapporti tra Europa cristiana e impero ottomano tra XVI e XVIII secolo: ho cercato di capire – e di far capire –  le vicende anche “di lunga durata” che precedettero, determinarono e seguirono quell’importante pagina di storia euroeo-mediterranea, modellando anche la situazione geostorica, geopolitica e geoculturale di un assetto che sarebbe rimasto fondamentalmente solido sino alla vigilia della prima guerra mondiale.  Questo libro è quindi anche la storia della complessità sia del mondo cristiano sia di quello musulmano, in sé e nei loro reciproci rapporti, al di là degli schemi troppo facili  e strumentali dello “scontro di civiltà”. E’ anche una storia di come si giunse a quell’autentica “fase critica” della Modernità – una “crisi di coscienza”, è stato detto – che si verificò nella cultura europea tra fine Seicento e primi anni del Settecento e che fu una pagina fondamentale della svolta che accelerò il “processo di secolarizzazione”. E’ un paradosso che tale processo abbia preso l’avvìo proprio da una “crociata”.

Fonte: http://www.francocardini.net/Archivio/2012/20.1.2012.html

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