Iraq e Siria, la lunga mano dei sauditi

di Gianandrea Gaiani

Baghdad e Damasco sono ormai campi di battaglia paralleli, inseriti nella stessa guerra che vede ribelli sunniti sempre più orientati verso l’estremismo islamico di matrice salafita e wahabita affrontare con le armi dell’insurrezione e del terrorismo il governo laico siriano e quello a guida sciita iracheno. Nonostante i qaedisti si siano trasferiti in buona parte dall’Iraq alla Siria dopo lo scoppio della rivolta contro Assad, Baghdad resta al centro di un’offensiva terroristica che non ha precedenti negli ultimi sei anni. In settembre, 979 persone sono state uccise e 2.133 sono rimaste ferite in attacchi e attentati. Nella solo Baghdad si sono registrati 418 morti e 1.011 feriti, un livello di violenza che non si riscontrava dai tempi più cupi della presenza militare statunitense, nel 2006, prima che le operazioni contro-insurrezionali del generale David Petraeus riuscissero a ridurre temporaneamente il terrorismo qaedista ai minimi termini.

A poco sembrano servire le repressioni governative (che puniscono in generale la comunità sunnita, ormai a tutti gli effetti emarginata dalla vita politica del Paese e spinta quindi ad avvicinarsi agli insorti) e una giustizia irachena che punisce i terroristi con il patibolo: a fine settembre in appena due giorni sono state giustiziate 23 persone in gran parte per “attività terroristiche” per un totale di 90 condanne capitali eseguite nel 2013 anno in cui quasi 5 mila persone hanno perso la vita nel Paese e 12 mila sono rimaste ferite. Se l’Iraq ha attratto almeno 600 combattenti stranieri legati a gruppi qaedisti in Siria la “legione straniera islamica” ha già raggiunto i 6/10 mila effettivi stimati dal Washington Post che hanno raggiunto le fila soprattutto del Fronte al-Nusra e dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.

L’unificazione dei movimenti di al-Qaeda attivi nei due Paesi non è solo spiegabile con la vicinanza geografica ma anche con una concreta continuità territoriale tra il territorio siriano e alcune province sunnite irachene, terre abitate dalle stesse tribù dove i posti di frontiera tenuti dalle truppe di Baghdad vengono spesso attaccati da entrambi i lati del confine. Dopo la costituzione del fronte politico Islam e Sharia, istituito su volontà saudita e degli emirati del Golfo dai gruppi salafiti (ma senza al-Qaeda, per salvare le apparenze) con l’obiettivo di scalzare l’opposizione moderata della Coalizione Nazionale Siriana, gli stessi sponsor del jihad contro Bashar Assad hanno dato vita all’Esercito dell’Islam.

Una forza militare che raccoglie quasi una cinquantina di brigate incluse molte che facevano parte dell’Esercito Siriano Libero (i cosiddetti moderati che godono della fiducia statunitense) definita dall’esperto di terrorismo islamico Philip Graves “il più grande export dell’Arabia Saudita” (leggi l’articolo su AsiaNews). L’obiettivo della nuova organizzazione militare è assumere il monopolio della rivolta contro Assad intensificando gli scontri contro gli altri gruppi di opposizione ma al tempo stesso sdoganare le forze islamiste presso l’Occidente. Operazione favorita dalla propaganda di molti media e tv arabe già riuscita due anni or sono in Libia e facilitata dalla sensibilità delle leadership europee agli investimenti miliardari delle monarchie del Golfo nel Vecchio Continente.

Mentre i salafiti si rifanno il trucco, continuano ad affiancare i qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante nella distruzione delle chiese cristiane in Siria e nella persecuzione dei non sunniti. Il loro obiettivo non è solo cacciare Bashar Assad ma costituire uno Stato Islamico, per questo attaccano e occupano le aree già liberate dai ribelli. A cominciare da quelle a ridosso del confine turco in parte controllate dalle milizie curde. Dopo aver conquistato la città siriana di Azaz, a 5 chilometri dal confine, lo Stato islamico di Iraq e Siria (Siis) ha minacciato di colpire con attentati kamikaze Istanbul e Ankara se la Turchia non riaprirà i valichi di frontiera.

I qaedisti, in molti casi entrati in Siria grazie proprio alla compiacenza del governo turco, hanno lanciato un vero e proprio ultimatum ad Ankara chiedendo la riapertura dei valichi di Bab al-Hawa e Bab al-Salameh entro oggi. L’opposizione turca e il partito curdo siriano Pyd, che lotta contro i miliziani qaedisti, hanno accusato Ankara di aiutare i gruppi jihadisti, consentendo loro fra l’altro libero passaggio del confine. Accuse che mettono in imbarazzo il premier Recep Tayyp Erdogan che dopo aver soffiato sul fuoco della rivolta in Siria ora rischia di caderne vittima. Secondo il quotidiano Zaman, con un comunicato il Siis ha rivendicato già un attentato in Turchia, quello a Reyhanli, cittadina turca di confine, che in maggio ha provocato 53 morti e oltre 100 feriti e per il quale Erdogan accusò invece una organizzazione di estrema sinistra turca collegata al regime di Damasco.

Per dirimere la questione alcune milizie salafite hanno chiesto ai qaedisti di ritirarsi da Azaz proponendo un arbitrato davanti alla Corte islamica istituita ad Aleppo ma intanto Bashar Assad ha avuto buon gioco a sfottere il suo vecchio amico Erdogan ricordandogli in un’intervista a una tv turca che Ankara «pagherà caro l’appoggio ai terroristi che operano in Siria» perché «il terrorismo è come uno scorpione, quando vuole ti punge».

Salafiti e qaedisti «vogliono creare uno Stato jihadista o un territorio jihadista e anche la deposizione del regime di Assad rientra in questo obiettivo» ha detto il direttore del Centro di studi strategici alla Georgetown University Bruce Hiffman al New York Times. Il piano è stato messo in cantiere da tempo ma ha subito un’evidente accelerazione con il potenziamento degli aiuti ai ribelli annunciato dai sauditi all’indomani della Risoluzione dell’Onu che, imponendo il disarmo chimico a Damasco, ha scongiurato l’intervento militare internazionale.

Fonte: Iraq e Siria, la lunga mano dei sauditi.

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