Iraq: le catacombe dei cristiani di Mosul

Articolo del 1° dicembre 2010
di Rodolfo Casadei

Il successore del martire Rahho, mons. Nona: «Per non avere paura della morte bisogna sapere come vivere»

L’ Esodo dei cristiani prosegue, benché in proporzioni meno massicce del passato, proseguono le violenze e le persecuzioni ai loro danni, anch’esse in misura più ridotta ma in forme sempre più inquietanti; tuttavia la fede di quelli che resistono esce maturata dalle dure prove, e si incontrano persino cristiani tornati in patria motivati dal desiderio di rendere testimonianza. Si potrebbe riassumere così il bilancio di una settimana di reportage fra i cristiani nel nord dell’Iraq, nell’area a cavallo fra il Kurdistan e i governatorati di Ninive e di At Tamim, lungo la direttrice che da sud a nord incontra Kirkuk, Erbil, Mosul e infine Zakho, alla frontiera con la Turchia.
Il cuore sanguinante del Cristo iracheno pulsa a Mosul, dove i cristiani prima del 2003 erano quasi 50 mila e oggi non sono più di 7-8 mila. Gli altri hanno cercato riparo nelle cittadine della vicina piana di Ninive, oggi sotto il controllo militare dei curdi, o sono fuggiti in Kurdistan o all’estero. Per due anni la sede arcivescovile caldea, a cui facevano riferimento due terzi dei cristiani della città, è rimasta vacante dopo il rapimento e la morte in cattività di mons. Paulos Faraj Rahho fra il febbraio e il marzo 2008. Nel gennaio scorso si è finalmente insediato il successore mons. Amil Nona, 41 anni, fino ad allora parroco ad Alqosh, un villaggio famoso per ospitare il monastero di sant’Ormisda, dove all’inizio del ‘500 maturò la ricongiunzione della maggioranza dei cristiani iracheni con Roma: «Confermo al 100 per cento: questa è la città più pericolosa dell’Iraq per i cristiani», dice accogliendoci nel palazzo dove il suo predecessore trasferì la curia dopo l’attentato che distrusse completamente la sede episcopale nel 2004. «Nei mesi precedenti le elezioni del marzo scorso gli attacchi e i rapimenti ai danni dei cristiani si sono moltiplicati, poi dopo la vittoria della lista di Allawi sono molto diminuiti. Ma se i sunniti verranno tenuti fuori dal prossimo governo, la violenza riprenderà su larga scala».

DELLE 10 CHIESE parrocchiali caldee ne restano aperte solo 4, delle 4 siro-cattoliche solo una. Tutta la vita ecclesiale si svolge esclusivamente all’interno degli edifici ecclesiastici, ma nella parte vecchia della città e nella parrocchia dello Spirito Santo – dove fu trucidato padre Ragheed Ghanni insieme a tre suddiaconi e rapito mons. Rahho -, la presenza cristiana è praticamente clandestina, con Messe convocate col passaparola. In quelle zone vescovo e sacerdoti si recano solo in incognito. Mons. Nona ha istituito una catechesi per gli adulti centrata sui dieci comandamenti che si svolge presso la parrocchia di San Paolo, dove è sepolto mons. Rahho. «La mia missione pastorale – spiega Nona – consiste nel mostrare che non bisogna avere paura della morte. Ma per non avere paura della morte bisogna sapere come vivere. Di fronte a questa gente che soffre da sette anni, è importante mostrargli come possono vivere».

ANNA VIVEVA col marito Markos nel quartiere della chiesa dello Spirito Santo. Da qualche anno si sono trasferiti nelle vicinanze del monastero antoniano di San Michele, sulla relativamente più tranquilla sponda orientale del Tigri, dopo aver venduto la casa. «Una volta i miliziani mi hanno minacciato di morte, perché mi è scivolato giù il velo mentre facevo la spesa nella città vecchia. Ci costringono a vestirci come le donne musulmane se vogliamo circolare fuori di casa. Noi siamo riusciti a vendere la casa normalmente, ma nostri conoscenti sono stati costretti dagli estremisti a venderla a metà prezzo in quanto cristiani. Non ne possiamo più, se fosse possibile emigreremmo all’estero». Due figli della coppia lo hanno già fatto, uno sta in Svezia e l’altro in Siria in attesa di essere accolto come profugo in Europa.
Guerra, violenze e persecuzione hanno scompaginato la demografia dei cristiani in Iraq. Prima del 2003 il Paese contava, approssimativamente, 800 mila cristiani, la metà dei quali residenti a Baghdad. Oggi ne restano circa 400 mila, e di questi nella capitale solo 150 mila; del tracollo di Mosul s’è detto. Invece sono lievitate le diocesi del Kurdistan e le cittadine della piana di Ninive, che complessivamente hanno raddoppiato la popolazione cristiana da 40 mila a 80 mila unità, mentre la diocesi di Dohuk-Zakho è diventata la seconda del Paese sfondando probabilmente quota 100 mila. Anche Erbil, dove sono stati trasferiti il seminario interdiocesano e la facoltà teologica, ha visto un boom di immigrazione cristiana: il quartiere a maggioranza cristiana di Ankawa ha visto raddoppiare il numero delle famiglie da 2 mila a 4 mila.
Nella piana di Ninive i cristiani hanno rafforzato le maggioranze, a volta schiaccianti, che avevano in tutte le cittadine con l’eccezione di Tel Qaif, la località di cui è nativo il patriarca Emmanuel III Delly: qui i cristiani da maggioritari che erano sono scesi al 30 per cento, e i loro sacerdoti sono emigrati tutti negli Usa tranne uno. Ma è proprio qui che incontriamo Samira, un’anziana signora che è tornata dopo cinque anni trascorsi a Detroit per assistere le tre nipoti, rimaste orfane dopo la morte di sua figlia. Vive nella casa del genero, che non si è risposato: «Per me – dice – qui o in America è la stessa cosa: non uscivo di casa là e non esco nemmeno qua». «Vivere un solo giorno in Iraq vale più che vivere tutta la vita in America», si vanta con orgoglio Yusef, il genero rimasto vedovo.
Anche ad Alqosh si incontrano cristiani iracheni che hanno nuotato controcorrente e sono tornati nel loro Paese. Hasim Harboli, 33 anni, indossa il saio grigio da novizio. Da due anni sta al monastero antoniano di Nostra Signora delle Messi, ma i precedenti dieci anni li ha vissuti all’estero con genitori e fratelli, gli ultimi cinque in Grecia. Lì ha sentito la vocazione religiosa. Il compiacimento della famiglia si è dissolto non appena saputo che il giovane avrebbe risposto alla chiamata non entrando in qualche monastero greco, ma tornando in Iraq. «Il desiderio di donare la mia vita a Cristo mi è nato leggendo le vite dei santi e ammirando la dedizione con cui i sacerdoti assistevano la comunità dei profughi caldei iracheni in Grecia. Avrei preso i voti volentieri in Europa, ma poi è successo il fatto di mons. Rahho. Il suo sacrificio mi ha colpito profondamente. Ho meditato su di lui e sulle sofferenze del popolo iracheno a cui rimangono sempre meno sacerdoti. Ho preso contatto col superiore di questo monastero e sono tornato in Iraq». Per rispondere alla vocazione Hasim ha lasciato anche la fidanzata irachena che aveva in Grecia e ha rotto i rapporti coi fratelli. I genitori si sono rassegnati senza gioia alla sua scelta. Ma lui non ha nessun dubbio sulla decisione che ha preso: «Voglio offrire la mia vita così come l’ha offerta Cristo».

YUSSEF DURED, profugo in Europa dopo la prima guerra del Golfo, ha vissuto 17 anni in Olanda facendo il pizzaiolo e il cuoco ma da tre mesi si è ristabilito in Iraq. Padre di tre figlie di due, cinque e sette anni, e marito di Sonia (anche lei una profuga cristiana irachena con la cittadinanza olandese), ha deciso con la moglie di tornare alla natìa Alqosh quando suo padre si è ammalato. «In Europa stavo bene, ma ho sempre portato nel cuore la terra dove sono nato. Qui nel nord la situazione è abbastanza tranquilla, e ho pensato che sarebbe stato bello riunificare la famiglia: ho voluto che le mie figlie conoscessero i loro nonni e potessero trascorrere con loro una parte della loro vita. La situazione potrebbe peggiorare? Condivi¬deremo il destino degli altri cristiani che vivono qui». In Olanda la famiglia frequentava le chiese cattoliche latine, ma quando si tocca l’argomento Dured si rabbuia un po’: «In Olanda cedono le chiese ai musulmani che le trasformano in moschee, noi qua non faremmo mai una cosa del genere. In Olanda i musulmani chiedono e ottengono tutto nel nome dei diritti umani, e gli olandesi non capiscono che ai musulmani non interessa la realizzazione dei diritti umani, ma vogliono far trionfare la loro religione. Qui in Iraq chi rispetta i diritti umani dei cristiani?».

MUSULMANI che rispettano i diritti umani dei cristiani in Iraq in effetti ce ne sono. Per esempio lo sceicco Ali Kh-Samed, presidente di un Comitato per il dialogo interreligioso di Kirkuk. Che sia uno sceicco un po’ speciale lo si capisce non appena si entra nel suo ufficio e subito si nota la più grande delle foto appese alla parete: Benedetto XVI che saluta Samed prendendogli le mani in una sala del Vaticano. «È importante che gli uomini religiosi non si chiudano nella propria confessione, ma si aprano all’altro diverso da loro, perché solo così possono aiutare a trovare soluzioni anziché a creare problemi – ci dice -. Osama Bin Laden non rappresenta noi musulmani, così come le vignette danesi su Maometto non rappresentano voi cristiani. Ma di questo abbiamo certezza solo quando ci conosciamo personalmente. Bisogna aumentare i rapporti fra noi perché ciascuno sia certo che i fondamentalisti rappresentano solo una minoranza dei credenti di una religione. Quando è stato rapito mons. Rahho io sono andato in tivù e mi sono rivolto ai rapitori dicendo che avevano fatto una cosa anti-islamica. Quando predico il venerdì in moschea sottolineo sempre che i cristiani sono nostri fratelli, che vivevano qui a Kirkuk prima dell’avvento dell’islam e che dobbiamo rispettarli».
Kirkuk aveva 30 mila cristiani negli anni Settanta, adesso sono 10-12 mila. Ma ancora fioriscono vocazioni sacerdotali ammirevoli, come quella di Nawar Mirzi, 23 anni, studente di ingegneria elettronica: l’unico studente cristiano della facoltà di ingegneria dell’università di Tikrit, la roccaforte sannita, città natale di Saddam Hussein. «All’inizio è stata dura – confida -: gli altri studenti volevano convincermi a farmi musulmano, dicendo che l’islam è l’ultima rivelazione. Io rispondevo che la fede è una scelta personale, e alla fine hanno imparato a rispettarmi, soprattutto perché ho dato il buon esempio. Nella camerata del college vivo con altri cinque studenti, e abbiamo imparato a rispettare i differenti tempi della preghiera: quando loro pregano, io resto nella stanza ma stando attento a non disturbare; quando prego io loro spengono la radio e stanno in silenzio finché non ho finito. Ho parlato con loro della mia vocazione al sacerdozio, che li ha molto colpiti, anche se uno mi ha detto: “No, tu sei l’unico maschio della famiglia e faresti bene a sposarti”».
Effettivamente la famiglia di Nawar ha reagito con disagio quando lui ha manifestato la sua vocazione proprio per questo motivo, e alla fine si è deciso di comune accordo che prima di entrare in seminario dovrà prendere la laurea in ingegneria. Per quanto riguarda le altre difficoltà, risponde: «Certo, lo so che in questo Paese ai preti capita di essere rapiti e persino uccisi, ma è Dio che sceglie per noi. Se mi ha dato questa vocazione, resterà sempre insieme a me in questa strada, qualunque situazione si presenti. Anche quando sono andato a studiare a Tikrit tutti mi dicevano che non avrei resistito, ma Dio mi è stato vicino. Voglio rispondere alla vocazione con la stessa fiducia».
«Queste cicatrici sui polsi non mi ricordano il rapimento, ma la volontà di Dio di salvare la mia vita». Dopo infinite raccomandazioni di mantenere riservati i dettagli intorno alla sua identità, il dottor Yoannes ci racconta la sua storia di medico cristiano (assiro orientale per la precisione) rapito. Sottolineando il legame fra la sua identità religiosa e il rapimento: «A Kirkuk dopo la guerra sono stati rapiti cinque medici, tutti cristiani. Perché noi non abbiamo dietro di noi una milizia o un partito politico potente che ci difenda. Quando chiedevo ai rapitori: “Perché mi avete rapito?”, loro rispondevano: “Perché sei un cristiano”». La prigionia, durata un mese, è stata estremamente crudele: il medico veniva sempre tenuto sdraiato a terra, legato, bendato e con un fazzoletto strettamente annodato intorno alla bocca, una catena che passava dal collo ai piedi ed era fissata a una parete. Quando non riusciva ad alzarsi in piedi a comando veniva picchiato. Come altri, ha subìto pressioni per cambiare religione: «Gli ho risposto che non avrei mai abbandonato la mia amata fede cristiana, e che ne ero orgoglioso. Allora mi dicevano: “Se resti cristiano, devi andartene dall’Iraq, qui non ti lasceremo lavorare”. Ho resistito grazie alla fede. Ho pregato per tutto il tempo ed ero certo che Dio sarebbe venuto in mio soccorso. Se l’infezione delle mie ferite non mi ha ucciso, è per un miracolo divino».

ANCHE Basile Georges Casmoussa (nella foto), arcivescovo siro-cattolico di Mosul che per ragioni di sicurezza trascorre la maggior parte del tempo nella cittadina di Qaraqosh nella piana di Ninive, è stato ostaggio di un rapimento, fortunatamente durato un giorno solo. «La violenza contro i cristiani oggi è meno intensa ma non meno inquietante. In passato siamo stati vittime di criminali che avevano deciso di accanirsi contro una comunità indifesa e di fanatici religiosi anticristiani. Da qualche tempo però siamo vittime anche dell’azione di una “terza forza” clandestina, che è espressione della lotta fra i grandi partiti politici. Il braccio di ferro fra sunniti, sciiti e curdi non è estraneo a certi fatti. La discordia fra il governo locale e quello centrale si traduce in colpi che cadono sui cristiani». Casmoussa non risiede più a Mosul, ma una dichiarazione come questa dimostra un coraggio fuori dal comune, non inferiore a quello degli ecclesiastici che continuano a operare là.

Fonte: http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=3073

 

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