Jane Campbell, baronessa inglese disabile contro l’eutanasia | Tempi.it

Aprile 8, 2014 Benedetta Frigerio

Intervista a Jane Campbell, in prima fila alla Camera dei Lord nella difesa della vita debole: «Leggi come quella sul suicidio assistito faranno sentire i disabili in colpa per il fatto di esistere, di costare tempo e denaro



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«Se mai cercassi di morire – e ci sono momenti in cui il progredire della mia malattia mi ha sfidata – voglio essere sicura che voi siete con me, a sostenere la mia vita e il suo valore». Fu con queste parole che la baronessa Jane Campbell, membro indipendente della Camera dei Lord, nel 2009 convinse il parlamento inglese a respingere il disegno di legge che avrebbe permesso di aiutare i malati a viaggiare verso paesi dove l’eutanasia è legale. Affetta da atrofia muscolare spinale, diagnosticata quando aveva 11 mesi di vita, Campbell secondo i medici sarebbe dovuta morire presto. Invece, 54 anni dopo, la baronessa è ancora viva. Eccome. All’età di 6 anni venne iscritta in una scuola speciale, ma era una noia per una come lei, che di lì a qualche anno sarebbe riuscita addirittura a concludere un master. Quando fece la sua prima domanda di lavoro, sentendosi rispondere che era «troppo disabile», la baronessa rispose a modo suo: prima fondando la National Centre for Independent Living, un’organizzazione in difesa dei diritti delle persone disabili, poi ingaggiando una campagna elettorale che nel 2007 la portò in parlamento.
In prima fila nella difesa della vita fragile, negli ultimi mesi la baronessa ha duellato con i politici inglesi contro l’ipotesi di porre fine alle sanzioni verso chi collabora al suicidio assistito dei malati con attesa di vita inferiore ai 6 mesi.

Lady Campbell, tre giorni fa lei è intervenuta contro i tagli annunciati dal governo al fondo per i servizi ai disabili. Pensa sia ancora possibile per i suoi colleghi, in tempo di crisi e spending review, ragionare in termini non meramente pragmatici?
Fossero almeno capaci di ragionare in quei termini! È buffo, ma la mentalità che ha come unico criterio l’interesse economico non riesce a perseguire nemmeno il suo scopo. Se facessero un bilancio integrale si accorgerebbero che per risparmiare dovrebbero fare il contrario: investire sui disabili, che possono dare un grande contributo alla società, facendo risparmiare lo Stato sui costi delle strutture in cui spesso sono relegati. La mia stessa vita dimostra che la via è questa.

Grazie soprattutto al suo intervento, nel 2009 la legge intesa a sostenere i viaggi dei malati terminali verso paesi che praticano l’eutanasia è stata respinta con 194 voti a 141. Come ha convinto i parlamentari?
Ho raccontato loro di quando rischiai di morire in ospedale: i medici pensavano di fare ciò che era “meglio per me”, volevano alleviare la mia sofferenza uccidendomi. Dissero che ero un caso da non rianimare perché una vita con il respiratore non è degna. Per fortuna mio marito, che era lì accanto a me, li obbligò a intervenire spiegando che già prima, di notte, mi aiutavo a respirare con il ventilatore e che ero felice di vivere. «Se non ci fosse stato lui, cosa mi sarebbe successo?», ho chiesto ai miei colleghi. Ho spiegato loro che la pena peggiore per un malato è la mancanza di qualcuno che ti vuole al mondo così come sei, non la malattia.

A marzo è spuntata l’ipotesi di depenalizzare l’assistenza al suicidio. Come si è battuta questa volta?
Ho spiegato che questi disegni di legge sono pericolosi. Una volta che la vita viene messa ai voti non è più possibile fermarne la relativizzazione. Leggi simili non possono che essere piani inclinati. Basta guardare agli altri paesi come il Belgio, che dall’eutanasia per i malati terminali è passato a quella sui bambini. Cerco di far capire che approvare una norma simile equivale ad avallare e promuovere una cultura che istiga i deboli al suicidio. Arriveranno a sentirsi in colpa per il fatto di esistere, di costare tempo e denaro. Ma noi vogliamo davvero vivere in un mondo di solitudine e disperazione, un mondo privo di compassione?

I suoi discorsi in aula in passato hanno spostato voti dalla sua parte. Cosa le dicono i suoi colleghi che cambiano idea?
Quando vengono a parlarmi, capisco che molti sono ingannati dall’ideologia. Partono da fatto che non vogliono che il malato soffra, ma poi prendono la scorciatoia che va per la maggiore e non si accorgono di buttare il bambino con l’acqua sporca. Io sono lì per indicare loro che c’è una strada che non elimina nulla: la chiave che può alleviare la sofferenza dei malati è la stessa che può ridurne i costi sociali. Bisogna solo amare i malati. Tanto che vedendomi felice e realizzata anche la loro paura del dolore, nutrita da un immaginario distorto dall’informazione, si riduce.

Lei parla di un inganno nascosto dietro il linguaggio della compassione. Qual è l’essenza di questa bugia?
La bugia sta nell’idea che dipendere sia una cosa terribile. Le persone spesso si fermano all’apparenza e per esempio quando guardano me non vedono quello che io sono. Mi riducono a una donna in carrozzina che scrive con un dito e che si nutre con la peg. Se solo avessero il coraggio di guardare oltre vedrebbero che sono una donna felice. Che dipendere da qualcuno che ci vuole bene, come me che sono aiutata in tutto, è bello. Se ci si accorgesse di questo non saremmo qui a discutere.

Lei ha avuto anche il coraggio di sfatare il mito moderno dell’autodeterminazione. Ha detto ai suoi colleghi: «Se mai mi volessi uccidere, voglio che mi fermiate».
Sono cresciuta in una famiglia che mi ha amata e incoraggiata. Così le difficoltà si sono trasformate in occasioni per trovare vie nuove, sviluppare la mia fantasia, fortificarmi nella lotta. Ma gli altri disabili? Chi ci pensa a loro? Tutta la società dovrebbe guardarli e capire chi sono, incontrarli e non nutrirsi di immagini e idee fuorvianti. Io che sono fortunata ho il dovere di dare voce a chi non ne ha e ricordare che i malati vogliono che qualcuno li ami, non che li uccida. Se il governo taglia i fondi per aiutarli, li spingerà verso un isolamento ulteriore, che ne porterà molti verso la depressione e la morte prematura.

Il premier David Cameron si è espresso contro la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, ma ha lasciato libertà di coscienza al partito. Cosa pensa di questa decisione?
Che è viziata: non si possono fare battaglie politiche e poi dire che non lo sono. Qui c’è in ballo la concezione di società e di bene comune che si vuole perseguire. Credo che prendere posizione su questi che sono i fini ultimi della politica sia un imperativo per ogni partito. I partiti non possono non avere e non dare una visione del mondo. A maggior ragione un leader deve essere capace di rendere ragione di ciò in cui crede.

Dove crede che arriverà questa escalation legislativa?
Basta guardare la storia, quando ancora la mentalità efficientista non era così pervasiva la Germania nazista cominciò a usare i disabili come cavie. “Impossibile! Siamo in una democrazia avanzata”, ti dicono scandalizzati. Non si rendono conto che questo sta già accedendo nei laboratori con gli embrioni scartati perché malati.

Come si fa a sperare in un cambiamento della politica? Vede leader pronti a difendere la vita debole?
Potrebbero sempre farmi primo ministro.

È con questa ironia che conquista tanto consenso?
Guardi che non sto scherzando.

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