Julien Ries e l’«homo religiosus»

di Massimo Introvigne  26-02-2013

Persa tra il Conclave e le elezioni italiane rischia di passare sotto silenzio o quasi la morte, avvenuta sabato scorso, del cardinale belga Julien Ries (1920-2013), un antropologo di fama mondiale e uno dei maggiori e più influenti intellettuali cattolici del nostro tempo.

Ho conosciuto Julien Ries in circostanze molto particolari, in occasione del rapporto sulle «sette» pubblicato dal Parlamento belga nel 1997 e delle relative proposte di legge contro le «sette». Presentate agli ingenui come misure per fermare le attività di Scientology e di altri gruppi controversi – risultato, peraltro, mai conseguito –, queste leggi offrono in realtà a giudici mali intenzionati strumenti per accusare anche istituzioni cattoliche di essere una «setta» e di manipolare i propri membri.

Il rapporto belga del 1997 elencava tra le «sette» la Famiglia spirituale «Das Werk», «L’Opera» – da non confondersi con l’Opus Dei –, una comunità maschile e femminile fondata da Madre Julia Verhaeghe (1910-1997). Di questa comunità Julien Ries era cappellano e portavoce, mentre chi scrive era impegnato a denunciare il carattere raffazzonato e pericoloso per la libertà religiosa in genere del documento prodotto dal Parlamento belga.
Ci trovammo dunque dalla stessa parte della barricata. E scoprimmo che dietro l’attacco dei parlamentari all’Opera c’era un sacerdote ultra-progressista, don Rick Devillé, lo stesso che avrebbe poi guidato la polizia nel 2010 a scoperchiare le tombe di due cardinali sostenendo l’assurda tesi secondo cui lì dentro i vescovi belgi avevano nascosto documenti sui preti pedofili.

La battaglia contro le bufale sull’Opera di don Devillé fu insieme comica, per il carattere palesemente delirante di alcune accuse del sacerdote belga, e tragica, perché un Parlamento lo prendeva sul serio e gli riservava ben dodici pagine di un suo rapporto ufficiale. Ne nacque un rapporto di collaborazione e stima con Julien Ries, che riuscì a mantenere un atteggiamento bonario e pacato, finalmente apprezzato anche da una stampa ostile, su una vicenda che pure lo faceva soffrire, e che trovò una felice conclusione nel 2001 quando, nel quarto anniversario della morte di Madre Verhaeghe, il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) approvò l’Opera come congregazione di diritto pontificio.

Poco dopo venne l’11 settembre 2001, che mi offrì nuove occasioni per collaborare con Julien Ries su un tema che anche a lui stava a cuore, il fondamentalismo islamico, e per incontrarlo diverse volte a Lovanio. Le conoscenze di Julien Ries in materia di religioni erano, in effetti, enciclopediche.
Era nato ad Arlon il 19 aprile 1920 e aveva frequentato il seminario minore, poi quello maggiore, a Namur, nella difficile situazione del Belgio in guerra e occupato dai tedeschi. Dal 1945, l’anno in cui è stato ordinato sacerdote, alla morte è sempre stato legato all’Università di Lovanio, il grande centro della cultura cattolica in Belgio, dove è diventato dottore in teologia con studi sul cristianesimo copto e sul manicheismo, poi professore di storia delle religioni.

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