Kamikaze per fede, la fobia del nemico

Vi è un paradosso tragico nella vicenda degli attentatori suicidi che la cronaca di questi ultimi anni ci ha regalato con insistente ricorrenza: questi giovani – quasi sempre fra i 25 e 30 anni – annientano se stessi e altri innocenti in nome di valori religiosi e ideali di giustizia, che sono destinati a rimanere una chimera nella loro esperienza personale. Non solo: proprio in conseguenza dei loro metodi di lotta, questi stessi valori rischiano di essere screditati agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, anche per gli aspetti più meritevoli d’attenzione.

Questo paradosso ci allontana, quasi ci respinge dalla loro realtà, e ci impedisce di studiarla. L’ansia di anteporre un giudizio di condanna fa premio sul desiderio di capire, che fatalmente rimane inappagato. Senza cedere a questa inerzia, Domenico Tosini, docente di Sociologia all’Università di Trento, in <+corsivo>Martiri che uccidono. Il terrorismo suicida nelle nuove guerre<+tondo> (Il Mulino) ne ha studiato la fenomenologia seguendo il metodo delle scienze sociali: sono attentatori suicidi coloro che sanno – anzi scelgono – di morire nell’azione violenta di cui sono autori; per loro, la morte non è solo un rischio implicito, come sempre avviene nella lotta armata; è una certezza perché il corpo dell’attentatore è esso stesso un’arma d’offesa, è il veicolo essenziale dell’iniziativa assassina.

Professor Tosini, il terrorismo suicida è d’origine esclusivamente religiosa, o si conoscono altre matrici dello stesso fenomeno?
«La religione non è una condizione necessaria: Il PKK turco e le Tigri Tamil dello Sri Lanka, per esempio, applicano questi metodi pur avendo una cultura secolare. Ciò detto non si può non riconoscere che negli ultimi trent’anni – arco di tempo che prendo in analisi nel libro – la maggior parte dei terroristi suicidi erano ispirati da un credo. Erano quasi sempre islamisti estremisti, vale a dire jihadisti di confessione sunnita o sciita».

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