La famiglia è il più grande nemico del mercato globale. Per questo la odiano. – Aleteia

La famiglia è un baluardo contro il consumismo perché progetta il futuro e non si abbandona solo al godimento del presente

Cinque Passi al Mistero

di Benedetta Scotti

Nella biblioteca di una nota scuola di business un giovane universitario compila nervosamente il suo Curriculum Vitae. Appena sotto il proprio nome ha aggiunto: “celibe”. Incuriosito, un amico gli domanda il perché di quell’informazione specifica. Il giovane, come sorpreso dall’ingenuità della domanda, replica che spera, in tale modo, di aumentare le chances di essere assunto: “Se non hai famiglia, l’azienda sa che sei più flessibile in termini di orari e di spostamenti. Così hai più possibilità di essere selezionato”. Risposta emblema di quella mutazione socio-economica che potremmo riassumere così: dal “tengo famiglia” al “non tengo famiglia”. Da principio e fine dell’agire economico a deprecabile fardello e impedimento.

Con un’affermazione forse ardita, potremmo dire che oggigiorno la famiglia, economicamente intesa come prima scuola di solidarietà e di ponderato uso delle risorse, è un elemento eversivo, nel senso che è estranea ai meccanismi che regolano il mercato globale. Infatti, la naturale propensione al risparmio e la struttura solidaristica del focolare domestico mal si conciliano con un sistema economico costruito su una spesa consumistica senza limiti e fondato su uno spirito di competizione esasperante. Inoltre, i tempi e le logiche della vita familiare sono incompatibili con i – troppo spesso – massacranti ritmi di lavoro imposti dal mercato, da accettare docilmente pena il benservito per mancanza di competitività. Come suggerisce l’episodio (reale) del giovane studente alle prese con il curriculum, in Occidente il non tenere famiglia è divenuto un vero e proprio vantaggio competitivo. Ma come si è potuti arrivare al “non tengo famiglia”?

L’economista americano Steven Horwitz fornisce una spiegazione alla questione chiara e sistematica che, probabilmente a sua insaputa, riprende quanto già preconizzato dai due amici scrittori Chesterton e Belloc all’inizio del Novecento. Secondo Horwitz, l’evoluzione della famiglia può interpretarsi come un movimento dal nucleo familiare propriamente inteso verso il mercato (in inglese “from the household to the market”), cominciato con quell’industrializzazione che segnò l’avvento dei moderni sistemi di produzione. Nell’era pre-industriale era la famiglia (o al più le corporazioni nel contesto urbano) e non la fabbrica a rappresentare l’unità produttiva fondamentale e la stessa produzione, agricola nelle campagne e artigianale nei centri urbani, era orientata alla sussistenza e non alla “crescita”. Inoltre, data la scarsità di capitale tecnologico, l’attività economica dipendeva crucialmente dalla manodopera, da cui conseguiva che una figliolanza numerosa fosse altamente desiderabile, anche come garanzia in vista della vecchiaia. “Domus” e “labor” costituivano, pertanto, un binomio inscindibile. Come scrive Chesterton, fu l’avvento del sistema capitalista, con l’affermazione del lavoro salariato, “a far sì che gli uomini abbandonassero le loro case per cercare lavoro” e che vivessero “vicino alle loro fabbriche o alle loro ditte invece che alle loro famiglie”. Venuto meno il legame tra “domus” et “labor”, venne meno anche la funzione originaria del nucleo familiare che, da unità produttiva fondamentale del sistema economico, è stata progressivamente declassata a passivo e borghese centro di consumo. Il lavoro salariato, oltre a incarnare la frattura tra tra “produzione” e “proprietà”, contribuì ad alimentare una concezione individualistica del sistema economico dal momento che rendeva possibile sopravvivere al di fuori della famiglia o di un gruppo socio-economico (quale, appunto, le corporazioni), vendendo il proprio lavoro al miglior offerente (da qui il movimento verso il mercato sopracitato). E infatti, nel sistema economico odierno, ciò che conta economicamente non è la famiglia, bensì l’individuo (o meglio il consumatore), come dimostra anche la scarsissima attenzione prestata in genere alla prima nei corsi universitari di economia (piccola nota autobiografica: il professore di Economia Aziendale eliminò dal programma d’esame il capitolo relativo alla famiglia liquidandolo come “di scarsa importanza”). Nefasta miopia se si considera che le imprese a conduzione familiare sono ancora il fondamento e il vanto di un’economia quale quella italiana, per quanto vengano spesso criticate per l’inefficienza che sarebbe insita a quello che viene ossimoricamente chiamato – alla luce di quanto discusso sopra – “capitalismo familiare”. La stessa ossessione per il consumo nasce da questa separazione tra “domus” e “labor” che ha mutato radicalmente il fine dell’agire economico: non più una ragionevole sussistenza bensì la crescita infinita, costruita sullo spasmodico aumento dei consumi tipico della società di massa. Una famiglia che risparmia è un pericoloso corpo estraneo in un sistema economico che concepisce i figli non più come una risorsa e una benedizione ma come un lusso (perché allevare un figlio nella società dei consumi “costa quanto una Ferrari”, recitava uno studio di qualche tempo fa) e come un ostacolo alla competitività lavorativa (vedi l’inquietante caso della Apple e di Facebook che hanno proposto alle loro giovani impiegate di congelare i propri ovuli per rimandare la gravidanza il più possibile).

Per concludere, come nota il filosofo francese Fabrice Hadjadj, la famiglia è anarchica perché è anteriore, oltre che al diritto e allo Stato, anche al Mercato. E in un sistema economico onnivoro e totalizzante, che non conosce regole se non quelle del profitto, questa anarchia, che segue altre logiche, si risolve in un amaro paradosso: la famiglia è il nemico numero uno del mercato globale.

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