La Humanae Vitae di Paolo VI: la sfida dei credenti alla cultura contemporanea | Da Porta Sant’Anna

La Humanae Vitae è l’ultima enciclica  scritta da papa Paolo VI  e pubblicata il 25 luglio 1968: è volta a specificare la dottrina sul matrimonio  così come definita dal Concilio Vaticano II. Il documento ribadisce la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale; dichiara anche l’illiceità di alcuni metodi per la regolazione della natalità (aborto, sterilizzazione, contraccezione,) e approva quelli basati sul riconoscimento della fertilità.  L’enciclica provocò un enorme dissenso sia a livello teologico sia a livello di conferenze episcopali. Non è esagerato dire che l’Humanae vitae è stato, se non il documento, almeno uno dei documenti del magistero ecclesiastico che ha fatto maggiormente discutere, suscitando numerose critiche e obiezioni da una parte e un ampio schieramento di difensori dall’altra. Oggi, almeno nel panorama ecclesiale e teologico italiano, le polemiche e le critiche si sono fatte meno aspre. Ma, al loro posto, è subentrato nei pastori un silenzio difficile da interpretare e nei credenti una pratica di vita che spesso è in aperto contrasto e, più frequentemente, ignora del tutto l’insegnamento dell’enciclica. Non sono mancate e non mancano, soprattutto a livello ufficiale, diverse prese di posizione che hanno ribadito con forza l’insegnamento dell’Humanae vitae: basterebbe pensare alla Familiaris Consortio (1981) e a Donum vitae (1987). Non c’è dubbio che, sotto un profilo teologico-morale, l’Humanae vitae implicitamente coinvolge la questione sessuale nella sua interezza. Anzi, più complessivamente ancora, essa rappresenta un documentoparadigmatico e significativo per comprendere i nodi, le questioni, le sfide e le difficoltà relative a tutta la pratica morale del credente nel contesto della cultura contemporanea. L’enciclica deve anzitutto essere posta sullo sfondo delle grandi trasformazioni del costume civile moderno riguardo alla relazione della coppia nel matrimonio, la sessualità e la generazione.

A sua volta questi cambiamenti vanno inscritti nelle trasformazioni culturali che negli anni ’60 si annunciavano e che oggi sono ampiamente diffuse, non solo in Occidente, e che riguardano anche le convinzioni e l’agire di molti credenti. Per citare soltanto due cambiamenti tipici della modernità, in un senso molto generale, possiamo qui ricordare l’attenzione e la riscoperta del soggetto da una parte e il rischio della sua riduzione individualistica dall’altra, e la riscoperta del valore degli affetti e delle emozioni – che sono elemento decisivo nell’esperienza personale – con il correlativo rischio dell’emotivismo che trasforma il ben-essere in criterio assoluto delle scelte etiche. Più in specifico, l’esperienza umana del matrimonio e della sessualità è oggi attraversata da profondi mutamenti riguardanti tanto l’esperienza pratica quanto il sapere riflesso: l’accentuazione del modello della famiglia ‘nucleare’, la privatizzazione del matrimonio, la netta separazione tra privato e pubblico, l’intimizzazione e la riduzione affettiva del legame di coppia con la perdita della sua definitività, i cambiamenti dei significati della presenza dei figli nella famiglia, la caduta del tabù del sesso, l’erotizzazione della cultura, la trasformazione della sessualità in esperienza privilegiata e quasi esclusiva dell’emozione e del piacere, l’interpretazione ‘neutrale’ della sessualità, per la quale essa viene considerata un’inclinazione indifferentemente omo o eterosessuale.

Il Vaticano II, parlando di «molteplici fini» (GS, n. 48) e pur ribadendo con grande forza l’aspetto istituzionale del matrimonio e l’importanza della generazione, aveva però rinunciato a stabilire una ‘gerarchia’ di fini e aveva insistito sul matrimonio come «comunità d’amore » (GS, n. 47), accogliendo, non senza forti resistenze, una nuova linea genericamente ‘personalista’. In questo modo, dopo circa trent’anni, il magistero ecclesiastico faceva sua quell’accentuazione ‘personalista’ che a partire da Doms, su ispirazione di Von Hildebrand, era stata in un primo tempo rifiutata o quantomeno contrastata (cfr. DS 3838). Questa nuova linea, senza contraddire formalmente al primato del ‘fine’ della generazione, sottolineava il senso del rapporto coniugale come forma della comunione degli sposi, chiamati al dono reciproco di sé, un dono che nel rapporto sessuale trova il suo momento espressivo culminante.

Benedetto XVI, a 40 anni dalla promulgazione di questa enciclica così si rivolgeva: “A distanza di 40 anni dalla pubblicazione dell’Enciclica possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande “sì” che implica l’amore coniugale. In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana. Questo grande “sì” alla bellezza dell’amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente. E’ vero, d’altronde, che nel cammino della coppia possono verificarsi delle circostanze gravi che rendono prudente distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle. Ed è qui che la conoscenza dei ritmi naturali di fertilità della donna diventa importante per la vita dei coniugi. I metodi di osservazione, che permettono alla coppia di determinare i periodi di fertilità, le consentono di amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l’integro significato della donazione sessuale. In questo modo i coniugi, rispettando la piena verità del loro amore, potranno modularne l’espressione in conformità a questi ritmi, senza togliere nulla alla totalità del dono di sé che l’unione nella carne esprime. Ovviamente ciò richiede una maturità nell’amore, che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell’impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù. Oggi, “grazie al progresso delle scienze biologiche e mediche, l’uomo può disporre di sempre più efficaci risorse terapeutiche, ma può anche acquisire poteri nuovi dalle conseguenze imprevedibili sulla vita umana nello stesso suo inizio e nei suoi primi stadi” (Istruz. Donum vitae, 1). In questa prospettiva, “molti ricercatori si sono impegnati nella lotta contro la sterilità. Salvaguardando pienamente la dignità della procreazione umana, alcuni sono arrivati a risultati che in precedenza sembravano irraggiungibili. Gli uomini di scienza vanno quindi incoraggiati a proseguire nelle loro ricerche, allo scopo di prevenire le cause della sterilità e potervi rimediare, in modo che le coppie sterili possano riuscire a procreare nel rispetto della loro dignità personale e di quella del nascituro” (Istruz. Donum vitae, 8). Possiamo chiederci: come mai oggi il mondo, ed anche molti fedeli, trovano tanta difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa, che illustra e difende la bellezza dell’amore coniugale nella sua manifestazione naturale? Certo, la soluzione tecnica anche nelle grandi questioni umane appare spesso la più facile, ma essa in realtà nasconde la questione di fondo, che riguarda il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale. La tecnica non può sostituire la maturazione della libertà, quando è in gioco l’amore. Anzi, come ben sappiamo, neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano. Per questo il servizio che la Chiesa offre nella sua pastorale matrimoniale e familiare dovrà saper orientare le coppie a capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha iscritto nel corpo umano, aiutandole ad accogliere quanto comporta un autentico cammino di maturazione.

Ivan Gambelli

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