Larghe intese per la vita – [ Il Foglio.it › La giornata ]

L’indifferentismo abortista, la terza Marcia pro life, i segnali di risveglio fra laici e cattolici

 

“La giornata più nera della mia vita è stata quella in cui ho firmato la legge sull’aborto”. Questo confessò Giulio Andreotti, parlando nel 2001 al Meeting di Rimini. Fu tentato dal dimettersi, ma come ricordò più volte, e anche in una conversazione del 2008 con il Foglio, “se io mi fossi dimesso nessun altro democristiano avrebbe potuto firmarla: si sarebbe aperta una crisi politica senza sbocco… con le dimissioni, avrei contribuito a un male maggiore di quello che volevo evitare. Così firmai”.
Nei giorni delle larghe intese, la morte di Giulio Andreotti ha fatto scorrere un fiume di riflessioni sul rapporto tra la chiesa, il cattolicesimo italiano e lo stato repubblicano. Ma la storia della legge 194 firmata come compromesso su un male minore – o sarebbe meglio dire come armistizio alla meno peggio dopo una sconfitta antropologica epocale (ma allora la parola non andava ancora di moda) è rimasta tra parentesi. Sottaciuta. Quasi una conferma di come in Italia – al di là delle statistiche che, più che di un calo, dicono di una assuefazione stazionaria al tran-tran ospedalizzato della 194: nel 2011 109 mila IVG (dato provvisorio), meno 5 per cento sul 2010 – l’aborto sia diventato in sostanza moralmente indifferente, e anzi paradigma di una superiorità soggettiva sul fatto oggettivo. Un dato di fatto relativizzato, per così dire, anche dalla chiesa, che in tre decenni non hai mai più affrontato di petto la battaglia su un piano culturale. Così che oggi, anche sugli altri fronti sensibili, dall’eutanasia alle nozze gay, c’è una sorta di paralizzata preoccupazione davanti al nuovo fronte di frana che potrebbe essere repentino, come dimostra il caso francese.

 

Il profumo di questa opaca aria occidentale che soffia sull’Italia lo raccontano due libri recenti. La scrittrice Simona Spartaco è entrata nella dozzina per lo Strega con “Nessuno sa di noi”, romanzo che parla di un aborto eugenetico (illegale e all’estero) dopo la 23esima settimana. Storia semplice: loro hanno voluto il loro bambino a furia di bombardamenti ormonali (è un loro legittimo desiderio, no?), adesso scoprono che quello sgorbio è malato. Perché non dovrebbero eliminarlo (è un loro diritto, no?)? C’è poi un saggio di Chiara Lalli per Fandango, “La verità, vi prego, sull’aborto”, basato su interviste a donne per nulla traumatizzate di aver abortito (altro che SPA, la sindrome post-abortiva), che prova a ribaltare il paradigma “della colpa” e smontare il pregiudizio per cui l’aborto “è sempre un trauma”. Lalli spiega come sia vero il contrario: “Voglio esplorare una possibilità teorica che si possa scegliere di abortire, che lo si possa fare perché non si vuole un figlio o non se ne vuole un altro, che si possa decidere senza covare conflitti o sensi di colpa”.
Eppure, mentre ci si avvia a celebrare i 35 anni della legge 194, il caso in Italia appare tutt’altro che chiuso. Domani, domenica 12 maggio, a Roma è convocata una piccola grande Marcia per la Vita: indipendente, anzi alternativa, rispetto alle tradizionali strutture pro life cattoliche. Nella stessa domenica arriva davanti a tutte le chiese d’Italia la mobilitazione per la raccolta europea di firme (ne servono un milione) della campagna “Uno di noi”, che intende proporre alla Commissione europea di “estendere la protezione giuridica della dignità, del diritto alla vita e dell’integrità di ogni essere umano fin dal concepimento”, cioè far riconoscere a livello europeo i diritti dell’embrione – iniziativa sostenuta dal Movimento per la Vita e in modo ufficioso dalla chiesa italiana, tramite le associazioni laicali e una martellante campagna di Avvenire.

Il messaggio inatteso di Angelo Scola

L’aborto, il suo scandalo lacerante anche nel corpo vivo della chiesa italiana appare insomma per quello che è: una questione tutt’altro che chiusa. Dolorosa, causa di timori e ripensamenti, ma viva. I segnali ad alto livello che qualcosa stia cambiando rispetto al passato non mancano. Uno assai eloquente, anche se buttato lì in modo informale, durante la presentazione milanese del suo ultimo libro “Non dimentichiamoci di Dio”, l’ha dato il cardinale di Milano, Angelo Scola. Rivolgendosi a Giuliano Ferrara e ricordando il suo impegno in materia, ha detto: “Mi sono sentito in colpa per quello che non siamo riusciti a dire noi, non l’abbiamo detto con chiarezza”. Ammissione più inedita che rara per un cardinale italiano, un “noi” che è suonato come una chiamata in causa di tutta la gerarchia, lasciando intendere che non si sia trattato di voce dal sen fuggita (del resto non è il genere di un teologo ad alta razionalità come Scola), ma di un giudizio meditato e foriero di approfondimenti. Se verranno, potrebbero essere anche divisivi, certo fuori dall’ecclesialese a bassa intensità in cui il dibattito in casa cattolica si è sempre svolto.

 

Bisogna tornare per un momento a quel 1978 e ad Andreotti. Per Paolo VI quella legge italiana, giunta nei suoi ultimi mesi di vita, fu un dolore immenso, ma è noto che né dal Vaticano né dalla Cei arrivò alcuna scomunica al presidente del Consiglio che la firmò. Lo ha ricordato, quasi unica medaglia in un articolo velenoso, Alberto Melloni: “Sarà però il Divo Giulio nel maggio 1978 a controfirmare la legge sull’aborto votata dal Parlamento: cosa che non accende alcuna sfiducia ecclesiastica”. E’ noto che quando partì la mobilitazione per il referendum i timori e le divisioni nelle gerarchie furono enormi. E’ noto che Andreotti non fosse certo l’unico contrario, così come non aveva condiviso la sciagurata campagna fanfaniana contro il divorzio, aveva anzi scritto un librino prezioso dei suoi, “I minibigami”, in cui sosteneva i possibili vantaggi di un doppio regime in caso di matrimonio: uno religioso e l’altro civile. Il referendum del 1981 fu una forzatura, pagata a caro prezzo. Il Sabato, allora settimanale della “ricomposizione dell’area cattolica”, dopo la batosta titolò “Si ricomincia da 32” (la percentuale raggiunta dagli antiabortisti), il wishful thinking forse più disastroso della storia del giornalismo cattolico: la ferita anche psicologica di quella sconfitta stracciò il tessuto ecclesiale in due lembi asimmetrici, una piccola minoranza pro life e una maggioranza che su quella ferita provò, di fatto, a spalmare l’anestetico di un quietismo distratto. Pochi davvero furono i tentativi di ripulirla, la ferita, tirandone via le croste indurite, cercando di purificare un pensiero pro life che fosse all’altezza dei tempi, della secolarizzazione ormai compiuta, di un rapporto con le leggi dello stato che andasse al di là della recriminazione e della tattica. Ci volle un ventennio perché la chiesa dei valori non negoziabili provasse una nuova strada. Furono gli anni dell’eccezionalismo italiano, della legge 40 e del Family day. Pochi anni dopo, col caso Englaro e la ventata di buon umore della moratoria contro l’aborto, la chiesa italiana è sembrata invece spaventata dalla vertigine di volare troppo alto. Recentemente il cardinale Camillo Ruini, dialogando col direttore di Repubblica Ezio Mauro, ha ricordato che la linea della chiesa non è mai stata né deve essere quella dello scontro: “E se la stessa chiesa andasse in minoranza?”, gli chiedeva Mauro. “Nessun problema”, replicava Ruini: “Per divorzio e aborto, tanto per citare il caso italiano, la chiesa non ha invitato alla rivolta civile, ma s’è appellata alla coscienza personale, perché l’uomo non ha solo una libertà esteriore, bensì una, ed è quella più importante, interiore”. Si farebbe un gran torto al cardinale a definirla una posizione mediana, lui è stato sempre tra i più netti sostenitori del dovere di intervento della chiesa nello spazio pubblico delle questioni legate al “grave dovere di dare la vita”. Ma certo la sua riflessione va inscritta in una più generale visione d’insieme, la stessa che Ruini ha esposto nella lectio magistralis per Magna Carta che il Foglio ha pubblicato martedì scorso sul rapporto tra le convinzioni religiose e la società aperta e secolarizzata.

 

La dottrina tradizionale, di per sé, è limpida. Ma nella chiesa italiana un pensiero bioetico forte ha stentato a nascere. Così come la sua sottolineatura pastorale. I richiami sono sempre stati netti ma generici, mai ultimativi, le iniziative di stimolo blande. Anche sul mero fronte della “attuazione integrale” della 194, quel preambolo che nega (negherebbe) tra le cause di aborto quelle economiche, si è fatto pochino. Il tempo ha un po’ logorato e infiacchito un mondo pro life mai davvero decollato, certo non nella misura battagliera tipica di altri contesti, per lo più anglosassoni. Qualche ruggine personalistica, qualche innegabile scontro interno, non hanno giovato. La poca incisività, i pochi volontari e la risibile dotazione dei Centri di aiuto alla vita, anche dei più battaglieri come quello di Paola Bonzi alla Mangiagalli di Milano, sono segnali che anche nelle ovattate stanze della Cei si stanno prendendo in considerazione. Ma non è solo il volontariato: in questi giorni cambieranno i vertici di Scienza e Vita, con l’ambizione di rilanciare la fucina culturale del pro life cattolico, di cui si erano perse le tracce.
I segni che qualcosa stia cambiando non mancano. A partire dall’appoggio a una iniziativa nata spontanea come la Marcia per la Vita (questa è la terza edizione), che ha raccolto l’adesione e la benedizione del presidente della Cei Angelo Bagnasco e di una trentina tra cardinali e vescovi. Se è naturale la partecipazione al convegno che precederà l’evento di prelati da sempre outspoken sui temi della vita come monsignor Gianpaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, o il cardinale di Bologna Carlo Caffarra, che svolgerà una lectio magistralis sul Vangelo della Vita, indicative sono anche altre adesioni, tra cui quella di Vincenzo Paglia, capo del pontificio Consiglio per la Famiglia. Alla Marcia parteciperà anche il cardinale americano Leo Raymond Burke, Prefetto del Supremo tribunale della segnatura apostolica, che in una recente intervista ha sparato alzo zero: “Credo che in alcuni posti ci sia grande esitazione da parte dei prelati a coinvolgersi in manifestazioni pubbliche. Quasi fosse percepita come una sorta di attività politica che un prete non deve intraprendere”.

 

L’iniziativa “Uno di noi” è un altro segnale di una galassia pro life in lenta uscita dalla letargia. La cosa più interessante è il tentativo di spostare il punto di vista, adeguandolo alle nuove sfide, anche di carattere legislativo. Spiega Alfredo Mantovano, tra i responsabili del comitato italiano, che “certo non c’è l’illusione di ottenere il risultato”, ma la mobilitazione internazionale serve per indicare che l’asticella sulle legislazioni della vita si sta alzando: “Ormai parliamo di eutanasia, di infanticidio (come documentato dal Foglio mercoledì, dell’eutanasia dei bambini possibile in Olanda “se le loro prospettive di vita sono fosche”, ndr). Mettere all’attenzione e chiedere un pronunciamento dei legislatori europei sullo statuto dell’embrione – tra l’altro in presenza di pareri di parte europea non sempre e non tutti negativi¬ – è più forte del semplice contrasto delle legislazioni abortiste che ormai ci sono quasi ovunque”. A Mantovano sembra che questo impegno non sia da poco, anche se riconosce che c’è stato un calo di tensione negli ultimi anni. Ma il clima sta cambiando: “E non è affatto migliorato. Anzi il rischio di nuove campagne negative, come l’iniziativa radicale sull’eutanasia, è alto, bisogna aggiornare il vecchio modo di affrontare questi temi. E una mobilitazione tra politica e società serve”.

Aggiornare il linguaggio
Servirebbe anche un aggiornamento dei linguaggi. Per dirla con Scola, se anche la chiesa non riuscisse più a far intendere che “la vita è sacra”, dovrà pur sempre trovare il modo di affermare che “l’autogenerazione non sarà mai possibile”. A rendere bisognosa di aggiornamento la lingua cattolica sulla vita in Italia è certamente anche il contesto. Più duro, a lungo più ideologizzato che altrove. La moratoria sull’aborto fu presa a uova e sassi, qualsiasi richiesta anche solo di finanziare l’aiuto alle donne che vogliono tenersi il loro bambino (come il meritorio progetto pilota Nasco della regione Lombardia) è sempre aggredita con un sordo “la 194 non si tocca”. La lingua di legno ideologica non è mai stata veramente scalfita, come invece capita all’estero. Da noi nessun film come “Juno”, nessuna star di prima grandezza come Jack Nicholson, non proprio l’icona del bravo ragazzo, pronta a dichiarare di essere risolutamente pro life “perché la vita è il dono più grande”. E’ culturalmente significativo lo scandalo generato nella cultura pop, pochi giorni fa, dall’autobiografia del tennista Jimmy Connors, come dire l’icona di un certo modo di essere eroi americani, l’alter ego di John McEnroe, che ha raccontato come la causa della rottura della sua relazione con Chris Evert fu la scelta di lei, allora diciannovenne, di abortire senza nemmeno consultarlo: “Avrei gradito che la natura facesse il suo corso, mi sarei preso le mie responsabilità, ma Chris ritenne che il momento non fosse quello giusto”.
Il mondo americano è diverso, e questo ha un riflesso anche sulla chiesa. Negli Stati Uniti la “Roe v. Wade” è un dibattito sempre aperto, non un tabù, e certe scelte obamiane non hanno fatto che acuirlo. E i vescovi parlano, spesso e volentieri. Negli ultimi anni, inchieste e analisi come quelle sull’aborto selettivo delle bambine in Asia sono diventate fonte di riflessione e scandalo non più taciuto. In Italia, le copertine dell’Economist inciampano nel ridimensionamento scettico, scivolano su una condivisione pelosa, nella traduzione infedele della “strage delle bambine”, nel tentativo di attutire e travisare la vera natura morale dello problema nel sottoinsieme dello scandalo di genere. Persino il teologo Vito Mancuso cessa di fare notizia, quando su Repubblica si lascia sfuggire che “la vita umana non fa eccezione: anch’essa è sacra e va trattata con rispetto dal concepimento fino alla fine”. E poi su Facebook glossa il filosofo cattolico Jean Guitton: “L’aborto è l’uccisione di un innocente” con un perentorio “sono totalmente d’accordo”.
Eppure in un altro paese cattolico come la Spagna, che ha subìto una bufera di secolarizzazione impetuosa e gli anni della follia ciudadana, i vescovi hanno la forza, in questi mesi, di sostenere una battaglia per la revisione della legge sull’aborto. Eppure in Irlanda, dove la chiesa è stata scossa alle radici dalla questione pedofilia, il disegno di legge che dovrebbe legalizzare l’aborto stenta anche per l’impegno preciso dei politici cattolici.

 

Per contro in Italia, dopo gli anni dell’eccezionalismo, la Cei è sembrata curarsi maggiormente dei suoi dossier sociali. E la politica pro life ha perduto un’intera legislatura, quella nata proprio nei giorni di Eluana Englaro. Il “tagliando alla 194”, che avrebbe dovuto essere la risposta piena di buon senso alla dura ma non moralistica e non antifemminile moratoria del Foglio, non è mai stato fatto, mentre il governo dell’anarca etico Berlusconi diventava anarchico e basta. Nell’agosto del 2010, a governo ormai pronto per i protocolli di Groningen, fu presentata la cosiddetta “agenda biopolitica”, iniziativa dei ministri del Welfare e della Salute Maurizio Sacconi e Ferruccio Fazio, insieme al sottosegretario Eugenia Roccella. C’era anche Beatrice Lorenzin, oggi ministro alla Salute. Parlò di una “intesa trasversale sulla priorità dei temi etici che sta emergendo dalla presentazione dell’agenda biopolitica del governo… su questi problemi fondamentali c’è un’evidente maggioranza parlamentare pro life”. Tutto restò lettera morta, per le note vicende indipendenti dalla buona volontà. Che oggi ci sia la possibilità di creare larghe intese su questi argomenti, è indubbiamente un wishful thinking. Scorre invece una maggiore preoccupazione, nella chiesa cattolica, che si possa assistere a qualche tentativo di forzatura alla francese. Intanto, si marcia.

 

di Maurizio Crippa

Fonte: Larghe intese per la vita – [ Il Foglio.it › La giornata ].

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