Le chiese cristiane nei Paesi arabi – Aleteia

– chiese autòctone;
– chiese del Calvario;
– chiese della resurrezione.

Chiese autòctone. Molti si stupiscono quando vengono a sapere che esistono degli arabi cristiani e che essi sono fondamentalmente arabi e non musulmani che hanno abbandonato la loro religione. Non voglio dilungarmi su questo punto, ma il fatto è che i nostri Paesi hanno conosciuto il Cristianesimo fin dalla sua nascita. Ancora non era finito il primo secolo che già le nostre terre erano diventate cristiane nella stragrande maggioranza. Anzi, sono stati i nostri Paesi a portare la Buona Novella alle estremità della terra, fino in India. Il fatto di essere cittadini originari significa molto per noi cristiani arabi. Significa che siamo autòctoni e che esistiamo da prima dell’Islam. Questo ci dà fiducia e forza morale ed etica, soprattutto se si considera che alcuni movimenti islamisti che sono comparsi di recente vogliono negare questo fatto e con semplicità davvero grossolana pensano che l’Oriente sia musulmano e l’Occidente cristiano. Tuttavia la testimonianza della storia e soprattutto dei monumenti cristiani antichi è impossibile da negare. Dobbiamo anche dire – e a voce alta – che le nostre chiese hanno conservato la loro fede attraverso lunghi secoli in cui non hanno sempre avuto vita facile: hanno continuato a circondare i luoghi santi con la loro esistenza e le loro preghiere, e anzi hanno accettato la nuova realtà che era sopraggiunta dalla Penisola araba, benché loro malgrado, contribuendo alla costruzione della civiltà arabo islamica da subito e fino a oggi, in particolare nell’età del Risorgimento arabo (la Nahda) del diciannovesimo secolo. Due sono gli elementi che hanno permesso di conservare la fede cristiana lungo i secoli: la liturgia e l’educazione domestica. La liturgia perché essa, e gli inni religiosi in particolare, sono permeati dai dogmi e sono diventati una parte della vita quotidiana del popolo cristiano, in particolare nei tempi in cui esso era analfabeta. E la casa, perché è stata e continua a essere la prima scuola della fede.

Chiesa del Calvario. Quando dico Calvario dico la lunga storia impervia e dolorosa che le nostre chiese hanno conosciuto. Le chiese d’Oriente hanno continuato a prosperare fino alla conquista islamica (settimo secolo) e dopo di essa ancora per due secoli circa. A Umm Rasas vicino a Madaba ci sono i resti di chiese che risalgono alla fine del nono secolo. Da quel momento le nostre chiese hanno conosciuto una situazione nuova: sono diventate minoranza. Dei quindici secoli che le nostre chiese hanno vissuto con l’Islam alcuni sono stati positivi e altri difficili, soprattutto la fine dell’età abbaside, fatimide (969-1171), mamelucca (1250-1517) e infine ottomana (1517-1918). Nel succedersi di queste epoche, la percentuale dei cristiani arabi è gradualmente diminuita. È vero che l’Islam solo raramente ha costretto i cristiani a cambiare di religione sotto la minaccia della spada, ma la questione della jizya (il testàtico imposto ai non musulmani) e degli altri tributi, le restrizioni e l’effettiva discriminazione, in aggiunta alla povertà materiale, hanno fatto sì che il numero dei cristiani andasse riducendosi grandemente (erano l’80% nei primi secoli dell’Islam, il 50% al tempo delle Crociate, il 20% nel diciannovesimo secolo, oggi il 5%).

Malgrado ciò la Chiesa non è scomparsa. È vero che molti hanno lasciato il Paese e continuano a farlo, ma i cristiani che hanno perseverato nella loro fede hanno conferito a questa realtà un significato spirituale; l’hanno denominata “la Chiesa del Calvario”, cioè la Chiesa del dolore, dell’incomprensione e della croce – la pietra di scandalo di cui parlò il Vecchio Simeone; e il discepolo non è da più del suo maestro, come ha detto il Signore. Ma l’idea che le chiese cristiane nei paesi arabi siano “la Chiesa del Calvario”, per quanto bella dal punto di vista spirituale e dogmatico, è difficile da vivere praticamente, giorno dopo giorno. I cristiani sono minoranza in tutti i Paesi arabi e la loro percentuale oscilla tra il 10% in Egitto e l’l,2% in Palestina fino ad arrivare quasi allo zero nei Paesi del Maghreb. Vivere come minoranza per secoli crea una psicologia “minoritaria” che non è piacevole. La minoranza ha paura, la minoranza cerca protezione, la minoranza lusinga le autorità al potere perché le diano garanzie sulla vita, la minoranza esagera il minimo problema e lo ingigantisce, la minoranza ha paura d’impegnarsi politicamente, la minoranza preferisce vivere sui dolori degli altri e ha paura di scendere nello spazio pubblico o d’implicarsi nell’azione politica. E quando alcuni cristiani si coinvolgono nell’azione politica, lo fanno a partire da un’appartenenza partitica, non ecclesiale. (Permettetemi qui di dire una cosa che èsula dal testo). La ragione di questo stato di cose risiede nel fatto che la Chiesa araba non ha mai dato delle indicazioni ai fedeli in questo ambito. E qui bisogna dire che il primo capo spirituale ad aver parlato dei principi cristiani nell’impegno politico è stato il Patriarca Michel Sabbah, Patriarca di Gerusalemme dei Latini dal 1988 al 2008. Infatti la situazione politica, sociale e umanitaria nella Terra Santa interessava tanto il cittadino musulmano quanto quello cristiano, quantomeno per quel che riguarda la dignità dell’uomo e i suoi diritti fondamentali, senza considerare i riflessi sociali e materiali della situazione. Per questa ragione il Patriarca Sabbah ha avvertito che era suo compito chiarire quello che la fede cristiana aveva da dire in quella precisa circostanza storica. Lo ha fatto attraverso le sue lettere pastorali, i discorsi e le conferenze in Terra Santa e all’estero. L’insegnamento della Chiesa in Terra Santa, i principi che tale insegnamento comprende e le loro applicazioni pratiche a livello dei diritti e dei doveri, del diritto alla resistenza e del rifiuto della violenza, dell’attenersi ai diritti fondamentali denunciando l’ingiustizia e chiamando le cose con il loro nome nonostante tutte le pressioni, tutto questo la Chiesa della Terra Santa lo deve al Patriarca Sabbah (Fine della divagazione).

Chiesa del Calvario però non è solo una questione di mentalità (maggioranza/minoranza). Recentemente si sono verificati casi in cui alcune chiese in taluni Paesi arabi sono state oggetto di aperta persecuzione: il Libano meridionale nel 1860, gli assiri in Iraq negli anni trenta del secolo scorso, i copti nella seconda metà del ventesimo secolo e tuttora. Quanto a quello che sta avvenendo in Siria, non c’è dubbio che [in linea di principio] esso tocca il siriano cristiano tanto quanto il siriano musulmano, ma al tempo stesso i movimenti islamisti estremisti prendono apertamente di mira i cristiani.
Una delle conseguenze più pericolose del fatto di essere Chiesa del Calvario, sofferente e piccola di numero, è l’esodo dei cristiani arabi. Emigrare in sé è un fenomeno che è proprio di tutte le epoche e di tutti i Paesi. I cristiani dei Paesi arabi lo hanno conosciuto a partire dal diciannovesimo secolo. Le cause più importanti sono state nel passato la condizione economica nella stagione del dominio turco, in particolare in Libano, Siria e Palestina. È chiaro oggi che quei Paesi arabi che vivono una situazione politica difficile vedono un’emigrazione più sostenuta. Per esempio, la percentuale dei cristiani palestinesi all’interno delle terre palestinesi è dell’1,2% mentre la percentuale dei cristiani palestinesi nei Paesi dell’emigrazione raggiunge il 10%. L’aspetto più pericoloso del fenomeno dell’emigrazione è che i Paesi arabi perdono i loro elementi cristiani migliori, le persone giovani e istruite, ciò che accresce la responsabilità di chi resta in patria per provvedere al sostentamento di anziani, bambini e giovani. Le diverse chiese cercano di arrestare l’esodo con vari mezzi: materiali, costruendo delle abitazioni per le giovani famiglie e cercando di trovare loro un lavoro fisso (per fare un esempio, più del 30% dei cristiani palestinesi lavorano in istituzioni ecclesiali) e scuole di alto livello (sono decine le scuole e università a Betlemme, Amman, Ibillin, Beirut e Baghdad). Al tempo stesso esse cercano di sottolineare come la presenza cristiana nei Paesi arabi sia una missione di fede che viene da Dio e che tutti sono chiamati a vivere, nonostante le difficoltà. Alcuni ne restano convinti, ma il pensiero del futuro dei figli rimane più forte. Alla fin fine le chiese possono fare molte cose e numerose attività per rafforzare la presenza cristiana, ma non possono prendere il posto dei governi competenti. La soluzione ideale per arrestare l’esodo resta il ripristino della sicurezza, della pace e della giustizia perché è errato pensare che chi emigra trovi un lavoro e un futuro migliore.

Chiesa del Calvario sì, Chiesa del dolore sì, ma la croce del dolore la Chiesa la porta insieme al Signore crocifisso e con la forza che proviene da lui. Le chiese nei Paesi arabi sanno, dicono e ripetono che è Dio ad averci voluto nei Paesi arabi per vivere la nostra fede e rendergli testimonianza nel luogo e nel tempo in cui ci ha posti. Se ci ha voluti cristiani arabi, è perché viviamo la nostra fede nella tenda araba e tra i nostri fratelli compatrioti musulmani ed ebrei. Altrimenti ci avrebbe creati cristiani in qualche altro Paese del vasto mondo. Per questo le chiese nei Paesi arabi vivono la loro croce mescolata alla gloria della risurrezione. E vengo così al terzo e ultimo punto del mio intervento.

Chiesa della risurrezione. Primo fondamento di questa espressione è la fede. La nostra fede cristiana ci dice infatti che la croce non è la parola finale dell’opera redentrice. La parola finale è la risurrezione, che è il fondamento della nostra fede. San Paolo dice: «Ma se Cristo non è risorto dai morti, siamo i più infelici di tutti gli uomini e vana è la nostra fede. Ma Cristo è risorto» (cfr. 1Cor 15,14). Per questo ripetiamo quello che ha detto Papa Francesco il Venerdì Santo di quest’anno: «La morte non è un muro contro cui andiamo a sbattere, la morte è una porta da cui passiamo verso una vita di gloria». E diciamo: «Essere Chiesa del Calvario non è un destino ineluttabile da vivere con la testa bassa, essere Chiesa del Calvario è la nostra via per arrivare alla Chiesa della gloria, per condividere la gloria con Cristo dopo aver condiviso con lui la Sua passione sul Calvario”.

La nostra è Chiesa della risurrezione ancora, perché continua la missione del Signore nei Paesi in cui la sua voce non cessa di riecheggiare, sui monti e nelle pianure. Continua la missione evangelizzatrice del Signore con la parola esplicita e soprattutto con la testimonianza di vita. Infatti la testimonianza di vita, come dice Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Deus Caritas Est, è più importante dell’annuncio esplicito, che alcune circostanze rendono difficoltoso. Essa continua la missione di Cristo con le sue innumerevoli istituzioni educative, umanitarie, sanitarie e sociali – basta guardare all’annuario del Patriarcato latino di Gerusalemme. E le altre chiese non sono da meno.

È Chiesa della risurrezione nelle sue parrocchie attive in tutti i Paesi arabi e nella gioventù impegnata. Non sapremmo contare i movimenti apostolici nelle chiese del mondo arabo. Vi darò un veloce schizzo della Chiesa in Giordania: 40 preti, più di 150 suore, 60 scuole cattoliche, 5 ospedali cristiani, numerosi ambulatori, movimenti giovanili che raggruppano più di 3000 ragazzi e ragazze, altrettanti scout, un segretariato generale per la gioventù e un altro per gli scout e le scout, un segretariato generale dei consigli parrocchiali (con più di 150 membri), un segretariato generale per il movimento delle giovani famiglie (più di 200 famiglie si riuniscono ogni martedì), un segretariato generale per i ministranti (più di 400), l’associazione delle madri cristiane (centinaia), poi la Caritas che ha 150 impiegati e in cui lavorano più di 1200 volontari. Le nostre chiese sono vive e la vita è un segno della risurrezione.

Siamo Chiesa della risurrezione per il ruolo profetico che svolgiamo nei vari conflitti che il mondo arabo vive in questi ultimi tempi. La voce della Chiesa in Palestina e Libano, in Egitto, Siria e Iraq cerca di essere la voce della verità. Una voce che invita a rifiutare la violenza, le guerre, il terrorismo, l’uccisione e la vendetta. Una voce che invita a stabilire la giustizia, la giustizia qual è insegnata dalla Chiesa a partire dalla lettera di Papa Giovanni XXIII Pacem in terris e che afferma che non vi è pace senza giustizia, né pace senza carità né pace senza perdono e riconciliazione. Se i Paesi arabi continuano a vivere una situazione confusa – speriamo che essa sia un travaglio verso società migliori – la ragione è che il fondamento primo, che è la giustizia, rimane ancora assente. La missione della Chiesa in tutti questi conflitti, dopo l’appello alla giustizia e alla pace, è agire per la riconciliazione e il perdono tra le parti in lotta. Si tratta di un’azione che solo le chiese cristiane possono compiere, perché il perdono è fondamentalmente una categoria cristiana. Infatti nella mentalità islamica e in quella ebraica troviamo raramente l’invito al perdono gratuito, dato e ricevuto. La mentalità ebraica è quella dell’occhio per occhio e dente per dente e nella mentalità musulmana troviamo il proverbio di quel beduino che, vendicàtosi a quarant’anni di distanza dal fatto, commenta: “Ho fatto presto”.

Infine, le nostre chiese nel mondo arabo sono chiese della risurrezione per le loro vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata. Se Dio ci ha fatti passare attraverso molte prove e crisi, ci ha risparmiato la crisi delle vocazioni. I nostri seminari hanno un buon numero di studenti e lo stesso vale per i noviziati religiosi. Un numero significativo di ragazze arabe ha cominciato a entrare negli ordini, locali e non. È una grazia di Dio per la quale Lo ringraziamo.

Conclusione

Vi ringrazio per essere venuti in Giordania per questa riunione. Vi ringrazio perché vi interessate alla situazione delle chiese nei Paesi arabi. Speriamo che le portiate nelle vostre preghiere e nei vostri pensieri. Permettetemi per concludere di esprimere un’osservazione che mi addolora e che addolora tutti i Vescovi del mondo arabo. I Vescovi che lavorano con le comunità religiose in generale e con quelle femminili in particolare hanno un’impressione generale dominante: operate con carità, dedizione e fedeltà ovunque vi troviate. Ma quando si tocca l’interesse della congregazione, esso viene spesso prima dell’interesse della Chiesa locale. Non vogliamo entrare in una discussione su questo punto, perché sarebbe lunga e forse inutile. Spero che possiate provare a noi Vescovi che questa impressione è errata o che risale al passato e che il presente sia, se Dio vuole, una verde primavera araba per i nostri Paesi, le nostre chiese e la vostra congregazione, e per tutte le congregazioni nei Paesi arabi e nel mondo.
Grazie.

Amman, 15 ottobre 2013
+ Mons. Maroun Lahham

traduzione Martino Diez

Fonte: Le chiese cristiane nei Paesi arabi – Aleteia.

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