L’esempio dei martiri coreani: C’è qualcosa per cui vale la pena morire? | La Nuova Bussola Quotidiana

di Massimo Introvigne – 17-08-2014

La terza giornata di Papa Francesco in Corea, 16 agosto 2014, ha avuto al suo centro  la beatificazione, presso la Porta di Gwanghwamun a Seoul, di fronte a oltre ottocentomila persone, di Paul Yun Ji-Chung (1759-1791) e di 123 compagni martiri, uccisi tra il 1791 e il 1888 nel corso delle persecuzioni coreane contro i cristiani. Con riferimento a vicende attuali che vanno al di là della Corea, il Papa ha affermato che oggi ci sono diverse forme di martirio che il mondo riserva a quei cristiani che non scendono a compromessi, e che l’esempio dei martiri rivolge a tutti noi una domanda insieme semplice e decisiva: esiste qualcosa per cui saremmo disposti a morire?

Incontrando separatamente le persone consacrate e i dirigenti dei movimenti laicali, il Pontefice ha fatto applicazione di questa domanda alla vita dei religiosi e dei laici, cui ha chiesto fedeltà alle rispettive vocazioni, e – quanto ai laici – uno speciale impegno per la promozione e la difesa della famiglia nell’ambito della loro missione specifica di ordinare al Regno di Gesù Cristo l’ordine temporale, di cui fa parte anche la vita politica.

I martiri coreani, ha detto il Pontefice nell’omelia della Messa di beatificazione, «vissero e morirono per Cristo ed ora regnano con Lui nella gioia e nella gloria. Con san Paolo ci dicono che, nella morte e risurrezione del suo Figlio, Dio ci ha donato la vittoria più grande di tutte». Morirono per la loro «rettitudine nella ricerca della verità, la loro fedeltà ai sommi principi della religione» e per la loro intransigenza nel proporre un modo di vita alternativo, conforme ai valori del Vangelo e alla carità cristiana, in una società dove non mancavano le crudeltà e le ingiustizie.

Con un excursus storico, Francesco è voluto «ritornare ai primi momenti, agli albori della Chiesa in Corea». La storia del cattolicesimo in Corea è infatti unica e per molti versi straordinaria. «Nella misteriosa provvidenza di Dio, la fede cristiana non giunse ai lidi della Corea attraverso missionari; vi entrò attraverso i cuori e le menti della gente coreana stessa. Essa fu stimolata dalla curiosità intellettuale, dalla ricerca della verità religiosa». Prima che in Corea giungessero i missionari, intellettuali e riformatori religiosi cominciarono a interessarsi al cristianesimo. «Attraverso un iniziale incontro con il Vangelo, i primi cristiani coreani aprirono le loro menti a Gesù. Volevano conoscere di più su questo Cristo che ha sofferto, è morto ed è risorto dai morti. L’apprendere qualcosa su Gesù condusse presto ad un incontro con il Signore stesso, ai primi battesimi, al desiderio di una vita sacramentale ed ecclesiale piena, e agli inizi di un impegno missionario».

«Questa storia – ha affermato il Papa – ci dice molto sull’importanza, la dignità e la bellezza della vocazione dei laici!». L’esempio della Corea dimostra che essi possono essere «lievito di santità e di verità nel mondo: il sale della terra, la luce del mondo». E laici furono anche la maggior parte dei martiri coreani. «Qualche tempo dopo che i primi semi della fede furono piantati in questa terra, i martiri e la comunità cristiana dovettero scegliere tra seguire Gesù o il mondo. Avevano udito l’avvertimento del Signore, e cioè che il mondo li avrebbe odiati a causa sua (Gv 17,14); sapevano il prezzo dell’essere discepoli. Per molti ciò significò la persecuzione e, più tardi, la fuga sulle montagne, dove formarono villaggi cattolici». I martiri coreani erano pronti «a grandi sacrifici e a lasciarsi spogliare di quanto li potesse allontanare da Cristo: i beni e la terra, il prestigio e l’onore, poiché sapevano che solo Cristo era il loro vero tesoro».

È una grande storia da tramandare, raccontare, far conoscere. Ma è anche una lezione che non ha perso di attualità per il presente. Le persecuzioni, in diverse forme, ci sono ancora. «Oggi molto spesso sperimentiamo che la nostra fede viene messa alla prova dal mondo, e in moltissimi modi ci vien chiesto di scendere a compromessi sulla fede, di diluire le esigenze radicali del Vangelo e conformarci allo spirito del tempo. E tuttavia i martiri ci richiamano a mettere Cristo al di sopra di tutto e a vedere tutto il resto in questo mondo in relazione a Lui e al suo Regno eterno». I martiri, ha affermato Papa Francesco, «ci provocano a domandarci se vi sia qualcosa per cui saremmo disposti a morire».

La prima comunità cristiana coreana, che produsse santi e martiri, assomigliava molto alle comunità cristiane dei tempi apostolici. Sperimentava «una forma di vita fraterna che sfidava le rigide strutture sociali del loro tempo». Anche questo esempio non è solo storia: «ha molto da dire a noi, che viviamo in società dove, accanto ad immense ricchezze, cresce in modo silenzioso la più abbietta povertà; dove raramente viene ascoltato il grido dei poveri; e dove Cristo continua a chiamare, ci chiede di amarlo e servirlo tendendo la mano ai nostri fratelli e sorelle bisognosi».

La morte ci fa paura. Ma se crediamo alle promesse di Gesù Cristo, allora diventiamo capaci di capire «la sublime libertà e la gioia con la quale essi andarono incontro alla morte. Inoltre vedremo che la celebrazione odierna abbraccia gli innumerevoli martiri anonimi, in questo Paese e nel resto del mondo, i quali, specie nell’ultimo secolo, hanno offerto la propria vita per Cristo o hanno sofferto pesanti persecuzioni a causa del suo nome».

Il Papa ha invitato i religiosi e le religiose, che ha incontrato nel pomeriggio a  Kkottongnae, a testimoniare la stessa libertà e la stessa gioia dei martiri. Ma «tale gioia – ha detto – è un dono che si nutre di una vita di preghiera, di meditazione della Parola di Dio, della celebrazione dei Sacramenti e della vita comunitaria. Quando queste mancano, emergeranno le debolezze e le difficoltà che oscureranno la gioia conosciuta così intimamente all’inizio del nostro cammino». Ai consacrati Papa Francesco ha ricordato che per loro «la povertà è sia un muro che una madre»: «un muro perché protegge la vita consacrata, e una madre perché la aiuta a crescere e la conduce nel giusto cammino».

Ci sono però diverse tentazioni da vincere: «l’ipocrisia di quegli uomini e donne consacrati che professano il voto di povertà e tuttavia vivono da ricchi», «la tentazione di adottare una mentalità puramente funzionale e mondana, che induce a riporre la nostra speranza soltanto nei mezzi umani», «la globalizzazione e il consumismo» che influenzano anche i conventi e inducono a cercare «scorciatoie». Ma per chi vuole imitare i santi e i martiri, ha detto il Papa, «non ci sono scorciatoie»: «Dio desidera i nostri cuori completamente», e per le persone consacrate questo implica anche una scrupolosa osservanza della castità, che è il segno della «donazione esclusiva all’amore di Dio».

Dopo una breve ma significativa preghiera nel «Giardino dei bambini abortiti», dove tante croci bianche che spiccano sul verde dell’erba ricordano le piccole vittime dell’aborto, Papa Francesco ha concluso la sua giornata incontrando i leader dei movimenti laicali, sempre a Kkottongnae. Come i religiosi, ha detto il Pontefice, anche i laici coreani sono chiamati a rivolgere lo sguardo ai martiri appena beatificati. «Essi diedero testimonianza alla fede non soltanto mediante le loro sofferenze e la morte, ma anche con la loro vita di amorevole solidarietà l’uno verso l’altro nelle comunità cristiane, caratterizzate da esemplare carità». Oggi la «preziosa eredità» di tanti laici morti eroicamente per la fede si prolunga nella testimonianza laicale «alla verità salvifica del Vangelo, al suo potere di purificare e trasformare il cuore umano, e alla sua fecondità nell’edificare la famiglia umana in unità, giustizia e pace».

Certo, «vi è un’unica missione della Chiesa di Dio», ma ai laici spetta fare sì «che l’ordine temporale sia permeato e perfezionato dallo Spirito di Cristo e ordinato alla venuta del suo Regno». Il laicato cattolico coreano gode della stima della nazione per le sue molte opere caritative. Però, ha detto il Papa, «assistere i poveri è cosa buona e necessaria, ma non è sufficiente». È anche necessario ordinare l’economia e la politica alle esigenze della giustizia e, in questo contesto, difendere particolarmente  la famiglia «in un’epoca di crisi della vita familiare». «La famiglia rimane l’unità basilare della società e la prima scuola nella quale i bambini imparano i valori umani, spirituali e morali che li rendono capaci di essere dei fari di bontà, di integrità e di giustizia nelle nostre comunità». Questi temi fanno parte necessaria di quell’opera di evangelizzazione e di missione che il modo con cui tutti noi, oggi, possiamo continuare la grande opera dei martiri e dei santi.

Fonte: L’esempio dei martiri coreani: C’è qualcosa per cui vale la pena morire?.

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