Libertà religiosa o libertà dei cristiani?

(di Roberto de Mattei) Tra gli slogan del linguaggio “politicamente corretto” c’è il termine di libertà religiosa, usato talvolta impropriamente dai cattolici anche come sinonimo di libertà della Chiesa o libertà dei cristiani. Si tratta in realtà di termini e concetti diversi, su cui è opportuno far chiarezza. L’equivoco, presente nella dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae  (1965), nasce dalla mancata distinzione tra il foro interno, che è l’ambito della coscienza personale, e il foro esterno, che è l’ambito pubblico, ovvero la professione e la propagazione pubblica delle proprie convinzioni religiose.

La Chiesa, con Gregorio XVI nella Mirari Vos (1836), con Pio IX nel Sillabo e nella Quanta Cura (1864), ma anche con Leone XIII nella Immortale Dei (1885) e nella Libertas (1888), insegna che:

1)      Nessuno può essere costretto a credere, in foro interno, perché la fede è una scelta intima della coscienza dell’uomo.

2)      L’uomo non ha diritto alla libertà religiosa in foro esterno, ovvero alla libertà di poter professare e propagare qualsiasi religione, perché solo la verità e il bene e non il male e l’errore hanno diritti.

3)      Il culto pubblico delle false religioni può eventualmente essere tollerato dai poteri civili in vista di un bene più grande da ottenersi o di un male maggiore da evitarsi, però per se stesso può essere represso anche con la forza se necessario. Ma il diritto alla tolleranza è una contraddizione perché, come è evidente anche dal termine, ciò che si tollera non è mai il bene, è sempre e soltanto il male. Nella vita sociale delle nazioni l’errore può essere tollerato come un fatto, mai ammesso come un diritto. L’errore «non ha

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