L’inquisizione gay mette il Senegal nel mirino dell’Onu

di Massimo Introvigne

A partire dal 21 ottobre si è giocata a Ginevra, di fronte alla Commissione per i Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, un’interessante partita che riguarda il Senegal. Su domanda di Gran Bretagna, Germania, Belgio e Olanda il Senegal è stato sottoposto a una vera e propria inquisizione per le sue norme in materia di omosessualità. La vicenda interessa i cattolici, perché è stata tirata in ballo anche la Santa Sede.

Nel mirino dell’ONU è l’articolo 319 del Codice penale senegalese, che punisce «chiunque avrà commesso un atto improprio o contro natura con una persona dello stesso sesso» con la reclusione da uno a cinque anni. Il Ministro della Giustizia del Senegal Sidiki Kaba ha spiegato a Ginevra che, benché i giornali europei e americani parlino spesso di persone condannate in quanto omosessuali, di fatto i tribunali condannano solo per comportamenti osceni omosessuali tenuti in luoghi pubblici – che sarebbero sanzionati anche in molti Paesi europei – o per attività propagandistiche in favore dell’omosessualità. «Nessuno è oggi in prigione in Senegal soltanto per la sua omosessualità», ha dichiarato il ministro. Se al Senegal saranno applicate sanzioni si chiarirà nelle prossime settimane.

Il Senegal è un Paese democratico. I più fedeli lettori del nostro quotidiano ricorderanno le mie cronache delle elezioni presidenziali del 2012, che avevo avuto occasione di studiare sul posto. Contrariamente a molti timori, le elezioni si svolsero regolarmente e portarono al potere un oppositore del precedente presidente Wade. Il Senegal – lo posso dire sulla base della mia osservazione – è un Paese sostanzialmente libero, dove la stampa dibatte di ogni argomento criticando spesso le autorità. Anche le società di sondaggi – come dimostrarono le elezioni – svolgono il loro lavoro in modo indipendente.

La questione dell’articolo 319 del Codice penale è stata sollevata in modo piuttosto arrogante dal presidente americano Obama nella sua visita in Senegal del 26-28 giugno 2013. Obama ha affermato in quell’occasione che la sua amministrazione non collabora e non concede aiuti ai Paesi che non tutelano i diritti degli omosessuali. L’intero consiglio dei ministri del Senegal  lo ha mandato a quel paese, dichiarando che una modifica dell’articolo 319 non è all’ordine del giorno perché sarebbe interpretata come una dichiarazione da parte dello Stato che gli atti omosessuali sono qualche cosa di «normale» e positivo, il che è contrario al comune sentire della società senegalese. Un sondaggio ha rilevato che il 98% dei senegalesi condivide questa posizione del governo. Una trentina di organizzazioni musulmane – che rappresentano in buona parte il mondo delle confraternite sufi, cui aderisce la maggioranza della popolazione senegalese – ha espresso la stessa posizione.

Queste organizzazioni, cui si sono aggiunti anche esponenti cattolici – il cattolicesimo è la seconda religione del Senegal – hanno ora protestato per l’indagine delle Nazioni Unite, che considerano il risultato di manovre degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei. Il problema sollevato da queste personalità religiose senegalesi è di grande interesse. La portata dell’articolo 319 è ampiamente simbolica, e la sua difesa consiste nella riaffermazione del principio secondo cui gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati e la propaganda di questi atti nuoce al bene comune. Si può discutere se norme che incriminino gli atti omosessuali – per quanto poco o mai applicate – siano  oggi uno strumento efficace per ribadire questo principio. Ci sono anche voci cattoliche che ritengono la formulazione di queste norme obsoleta.

La stessa Santa Sede, nel suo intervento alla Sessione delle Nazioni Unite del 18 dicembre 2008 sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, si è detta favorevole all’abrogazione delle norme penali che «sulla base del diritto penale impongano pene alle persone omosessuali in quanto tali». È una dichiarazione spesso citata dalle organizzazioni omosessuali, le quali però si dimenticano che nello stesso documento si legge che l’abolizione di norme penali che colpiscano le persone omosessuali in quanto tali non deve risolversi in una promozione dell’ideologia di genere né andare al di là del suo scopo preciso e limitato, la «protezione delle persone omosessuali da ogni forma di violenza» pubblica o privata: una protezione che ovviamente la Chiesa considera del tutto legittima e anzi doverosa.

D’altro canto, le organizzazioni religiose senegalesi e il governo toccano un punto delicato quando accusano l’amministrazione Obama e l’Europa di neocolonialismo,  scrivendo in un documento sull’inchiesta di Ginevra che «si vuole imporre al Senegal un modello subculturale presunto “universale” ma che il popolo senegalese non vuole e che contrasta con i suoi valori tradizionali e religiosi». E lo si vuole imporre con il ricatto: o accettate la nostra visione dell’omosessualità o vi blocchiamo gli aiuti. Davvero possiamo imporre ai senegalesi un modello che il 98% della popolazione rifiuta? Tanti intellettuali europei pronti a riempirsi la bocca con slogan anticolonialisti non hanno nulla da dire?

E non c’è solo il Senegal. In Belize, nel Centro-America, la Corte Suprema sta discutendo il fato di una norma simile a quella senegalese, difesa dalla maggioranza delle comunità religiose del Paese contro fortissime pressioni dell’amministrazione Obama. Non manca neppure chi vuole tirare il Papa per la talare. Il 16 ottobre 2013 Human Rights Watch ha scritto una lettera a Papa Francesco ricordandogli la famosa dichiarazione della Santa Sede all’ONU del 2008, lodando le sue presunte «aperture» agli omosessuali in qualche intervista, e mandandogli una straordinaria «lista nera» di vescovi che si oppongono all’abrogazione delle norme che incriminano gli atti omosessuali e che il Papa dovrebbe punire. In realtà – esaminando i casi uno per uno, dal Senegal al Belize – non esiste nessun vescovo che vuole vedere gli omosessuali messi in prigione a causa della loro condizione. Ma ci sono vescovi che, esattamente come la dichiarazione della Santa Sede del 2008, si preoccupano che l’abrogazione delle norme penali sull’omosessualità – pure in sé e per sé auspicabile – non avvenga in un contesto che apra le porte alla promozione dell’ideologia di genere e al riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali, oltre a provocare reazioni in popolazioni che percepiscono le pressioni straniere come imposizioni neocolonialiste.

C’è, infine, un altro aspetto del problema. Tutti sappiamo come sia delicato oggi distinguere fra emigrazione economica e fuga dalle persecuzioni, e fra immigrati e rifugiati. Un certo numero di senegalesi oggi arriva in Europa e chiede lo status di rifugiato dichiarando di essere omosessuale, perseguitato come tale in base all’art. 319. In Francia le richieste sono numerose, e la questione è sofferta, anche perché la polizia ha scoperto che alcuni dei richiedenti asilo non sono affatto omosessuali ma si dichiarano tali per acquisire la comoda posizione di rifugiato. In Italia ci facciamo meno problemi. Il 20 settembre 2012 la Cassazione ha stabilito che l’esistenza in Senegal dell’articolo 319 «giustifica la concessione dello status di rifugiato politico all’omosessuale» senegalese, che non potrebbe «vivere liberamente la propria sessualità» in patria e dunque deve essere accolto come rifugiato per poterla vivere da noi.

Fonte: L’inquisizione gay mette il Senegal nel mirino dell’Onu.

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