ll beato Bulešić, martire cristiano del comunismo

di Massimo Introvigne

Per tutto il mese di ottobre si susseguono in Croazia le celebrazioni per la beatificazione del sacerdote e martire don Miroslav Bulešić (1920-1947), avvenuta il 28 settembre a Pola. Il beato Bulešić si aggiunge a un’ampia schiera di martiri che – dalla Spagna alla Polonia e  all’Italia del beato Rolando Rivi (1931-1945) – sono stati vittima dell’odio comunista contro la Chiesa Cattolica. La sua causa di beatificazione è stata però molto sofferta. Profittando di un soggiorno in Croazia per tenere una serie di conferenze, ho potuto leggere la «Positio», il documento fondamentale del processo di beatificazione, che chiarisce alcune questioni intricate la cui rilevanza va al di là del caso relativo al nuovo beato.

Del beato Bulešić si può dire che morì per il sacramento della Cresima. Dopo la Seconda guerra mondiale, in attesa della definizione dei confini fra Italia e Jugoslavia, l’Istria ex-italiana era divisa fra una Zona A, amministrata dall’Italia, e una Zona B, amministrata dalla Jugoslavia. Nella Zona B le violenze contro la Chiesa e i sacerdoti da parte delle milizie comuniste erano all’ordine del giorno.  Solo nelle diocesi che oggi fanno parte della Croazia 434 sacerdoti furono uccisi dai comunisti, mentre 24 morirono in carcere, su un totale di 2.625 che esercitavano il ministero: il 17% del clero cattolico, la più alta percentuale di martiri tra i preti fra tutti i Paesi dominati dal comunismo.

Per una serie di motivi, lo scontro negli anni successivi alla guerra si concentrò sulle Cresime. La storiografia di regime in Jugoslavia ha imputato questo scontro all’indicazione dei vescovi di non accettare come padrini e madrine gli iscritti al Partito Comunista. Ma si trattava di un pretesto perché, anche nei paesi dove il problema di aspiranti padrini comunisti non si poneva, i miliziani impedivano a forza la celebrazione delle Cresime, gridando che il futuro dei giovani croati doveva essere nelle mani del Partito Comunista e non della Chiesa.

Gli scontri diventando sempre più violenti, negli anni 1946-1947 non sono molti i sacerdoti che accettano di rappresentare i vescovi e amministrare le cresime, specie nelle zone più turbolente. Il beato Bulešić, sacerdote carismatico ed estremamente popolare fra la popolazione, nonostante la giovane età, non si lascia intimidire. Pronto a morire, dopo avere redatto un commovente testamento spirituale, la domenica 24 agosto 1947 accompagna il confratello monsignor Jakob Ukmar (1878-1971) ad amministrare le Cresime nella parrocchia di Lanišće, nell’Istria settentrionale. Qui i sacerdoti sono minacciati di morte se non annulleranno la funzione. Ma la cerimonia prosegue. I sacerdoti passano nella canonica, dove fa irruzione un gruppo di miliziani comunisti che bastona a morte il beato Bulešić, finendolo poi a coltellate. Monsignor Ukmar è lasciato a terra per morto, ma – quasi miracolosamente – sopravvive. Le autorità comuniste tentano di tenerlo isolato in ospedale, ma riesce a riparare a Trieste e a raccontare come si sono svolti i fatti.  Dopo avere cercato invano un medico disposto a firmare un certificato dove si dichiari che Bulešić è morto di morte naturale a seguito di un infarto, le autorità cambiano versione e sostengono che i sacerdoti hanno provocato i miliziani con slogan anticomunisti. Per questa presunta provocazione il parroco di Lanišće è condannato a sei anni di campo di concentramento, e perfino il povero monsignor Ukmar – la cui colpa, sostanzialmente, è quella di non essere morto – si vede infliggere in contumacia un mese di prigione.

I fatti di Lanišće sono seguiti con grande rilievo dall’«Osservatore Romano» e anche dalla stampa degli Stati Uniti, dov’è presente una rilevante comunità croata. Nasce subito un movimento per la beatificazione di don Bulešić. Se ne ricordano, oltre al martirio, anche le doti non comuni, che avevano indotto i superiori a mandare questo figlio di umili agricoltori a studiare a Roma e a nominarlo, tre anni dopo l’ordinazione sacerdotale del 1943, professore di filosofia e poi vice-rettore del seminario di Pazin, affidandogli anche delicati incarichi di mediazione nella drammatica situazione della guerra. Molto popolare fra la popolazione, don Bulešić cercava di portare conforto attraverso la devozione alla Madonna di Fatima, un compito cui riteneva la Provvidenza lo avesse predestinato facendolo nascere nel giorno delle apparizioni, il 13 maggio 1920, tre anni dopo l’evento miracoloso in Portogallo.

Come rivela la «Positio» la causa di beatificazione, introdotta nel 1956 e che sembrava destinata a progredire rapidamente, s’incagliò quasi subito. Le autorità della Jugoslavia fecero sapere che avrebbero inteso la beatificazione come una provocazione – oltre tutto, i responsabili dell’assassinio di don Bulešić occupavano posizioni di rilievo nel Partito Comunista – e che non sarebbero mancate ritorsioni. Ma la parte più interessante della «Positio» riguarda le opposizioni italiane, che venivano sia da ambienti politici sia da monsignor Raffaele Radossi (1887-1972), un francescano conventuale che era stato vescovo di don Bulešić nella diocesi di Parenzo e che, riparato in Italia nel 1947, era diventato vescovo di Spoleto. Mons. Radossi scrisse nel 1958 che don Bulešić era senz’altro un sacerdote brillante, cui egli stesso aveva conferito incarichi delicati, ma che i rapporti che aveva avuto con lui «non erano intonati a quel rispetto che un Sacerdote deve avere per il suo Vescovo».

Che cosa era successo? La Zona B dopo la Seconda guerra mondiale era divisa politicamente tra chi parlava italiano, che auspicava per l’Istria un futuro nella Repubblica Italiana, e chi parlava croato, che preferiva l’unione con la Jugoslavia. Tranne una piccola minoranza, i croati istriani non erano comunisti. Ma anche i più anticomunisti diffidavano dell’Italia, e lamentavano una politica di italianizzazione forzata negli anni del fascismo, quando si era cercato d’imporre la lingua e la cultura italiana anche ai villaggi dove la maggioranza era croata. Anche la Chiesa era spaccata. Il clero croato – che a sua volta era stato discriminato dal regime fascista (nulla a che vedere con le stragi che sarebbero poi state perpetrate dai comunisti, ma una serie di deportazioni di sacerdoti croati dall’Istria e anche qualche bastonatura squadrista) – preferiva l’unione dell’Istria alla Jugoslavia, per cui si era espresso anche l’arcivescovo di Zagabria e futuro cardinale beato Alojzije Stepinac (1898-1960), che conosceva e stimava don Bulešić.
Quest’ultimo divenne segretario della Compagnia dei Sacerdoti di San Paolo, che difendeva le posizioni del clero croato e che il vescovo Radossi cercò di sciogliere. Monsignor Radossi era infatti un fermo sostenitore del ritorno dell’Istria all’Italia, ed era egli stesso un prodotto delle campagne di italianizzazione. Benché di madrelingua croata, aveva cambiato il suo cognome da Radoslović in Radossi e si sentiva del tutto italiano.

Né il beato Stepinac né il beato Bulešić possono essere sospettati d’indulgenza verso il regime comunista. Dagli scritti di don Bulešić emerge al contrario un acceso anticomunismo, che pagò con la vita. Nello stesso tempo, i due beati erano critici rispetto alla politica fascista di italianizzazione forzata, e non si fidavano neppure dell’Italia democratica. Sapevano che per gli istriani croati l’annessione alla Jugoslavia avrebbe comportato vivere in un regime comunista, ma sostenevano che questo regime un giorno sarebbe caduto, mentre l’italianizzazione avrebbe distrutto l’identità dei villaggi croati per sempre. La «Positio» mette bene in luce come la loro opposizione al ritorno dell’Istria all’Italia non nascesse da motivazioni soltanto nazionaliste o prudenziali, ma anche religiose. Atteso che la popolazione di lingua croata non voleva comunque il ritorno all’Italia, temevano che, se la Chiesa si fosse schierata dalla parte degli italiani, i croati dell’Istria l’avrebbero abbandonata accettando la propaganda comunista che mostrava il Partito come il solo garante dell’identità croata. La propaganda di regime denunciava i vescovi e il clero come agenti italiani, fomentando le violenze.

Di qui la rispettosa ma ferma resistenza di don Bulešić al vescovo Radossi, e il suo difficile tentativo di tenere insieme anticomunismo e difesa dell’identità croata. Comprensibilmente, il clero istriano di lingua italiana non apprezzava particolarmente questa posizione. La furia comunista, con le sue stragi di cattolici e di preti, finì per risanare queste antiche ferite. Sacerdoti che avevano discusso anche in modo acceso sul destino dell’Istria si ritrovarono negli stessi campi di concentramento.

Oggi, realizzato il sogno del beato Bulešić di una Croazia indipendente, si è potuto procedere con serenità anche alla sua beatificazione. La Croazia appena entrata nell’Unione Europea non è più minacciata dai miliziani comunisti, ma – ne ha parlato anche il nostro giornale – dalle pressioni per introdurre leggi e programmi scolastici ispirati all’ideologia del gender. Di fronte a questi pericoli, è consolante vedere come croati cattolici di diverse provenienze e lingue si siano uniti in un moto di simpatia spontaneo per il nuovo beato, testimone della fede contro quella persecuzione delle ideologie che, se cambia metodi e volto, non cessa di aggredire la Chiesa ancora oggi.

Fonte: ll beato Bulešić, martire cristiano del comunismo.

Print Friendly, PDF & Email
Questa voce è stata pubblicata in Europa e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.

I commenti sono chiusi.