Madri indiane ‘surrogate’, una storia di schiavismo post-moderno | UCCR

Non diversamente da molte altre indiane, Premila Vaghela era incinta. E non diversamente da moltre altre, aveva il suo utero in ‘affitto’. Ma contrariamente alle altre, Premila non ce l’ha fatta. Era una ‘biological coolie’, una schiava biologica, tra le migliaia che in India, spinte dalla povertà decidono di mettere in affitto il loro apparato produttivo a facoltosi stranieri, che se ne servono per impiantare, a prezzo ridotto, il loro ovulo fecondato. Qualcosa però è andato storto: arrivata dinanzi al Pulse Women’s Hospital per un controllo di routine, è stata stroncata da un malore che le ha portato via la vita poco dopo. Non prima però di poter portare a termine il suo compito. La clinica privata del Gujarat si è infatti adoperata immediatamente per salvare il frutto del suo lavoro, estrando il bambino con un cesareo, per poi inviare la donna in un ospedale terzo, dove l’unica cosa che hanno potuto fare è prendere atto della condizione disperata di Premila e constatarne il successivo decesso.

La storia di Premila, riportata nel dettaglio da ‘La nuova bussola quotidiana‘, è la storia di molte altre donne indiane ‘surrogate’. Maternità surrogata o più semplicemente ‘surrogacy’, per gli anglofoni, il termine con cui questa pratica viene definita. Un giro d’affari di quasi due miliardi di euro tra cliniche, ‘recruiters’, avvocati e hotel, che produce qualcosa come 25000 bambini all’anno. Offerta che va a soddisfare la domanda sempre crescente di clienti perlopiù americani e della classe agiata indiana, ma anche di europei, australiani, taiwanesi e del numeroso gruppo di omosessuali occidentali. Questi ultimi che nella possibilità della surrogacy vedevano nell’India una sorta di El Dorado, rappresentavano una delle fasce di acquirenti in più forte crescita. Anche per questo, forse, da Nuova Delhi sono state recentemente approvate delle norme volte a porre dei paletti in una materia fino a prima sotto anarchia giuridica.

Il giro di vite prevede, come riporta ‘Avvenire’, che «solo le coppie straniere composte da un uomo e una donna sposati da almeno due anni potranno utilizzare una donna indiana per avere un figlio», escludendo dunque, gay e single. I richiedenti dovranno inoltre dotarsi di «un visto per ragioni mediche» e dei documenti rilasciati dall’ambasciata che attesti che il paese del ‘cliente’ riconosca la maternità surrogata. Precauzione d’obbligo visto l’esperienza indiana che ha alle spalle un piccolo incidente diplomatico con la Norvegia, che si rifiutò di riconoscere la maternità di due gemelli nati da un ‘utero in affitto’ indiano. Invero, più di qualche incoveniente giuridico, come riporta ‘Tempi‘, è sorto con quei paesi che si rifiutano di digerire la «finzione giuridica» sulla quale si basa l’intero sistema. Ad ogni modo, mentre viene regolamentata quella che è stata definita come la cosa «più simile alla schiavitù che il mondo postmoderno abbia prodotto», il ‘Times of India‘ riporta che il business della surrogacy si sta già spostando dal Gujarat nella più povera regione del Punjab, dove la pratica è ancora più economica.

Nicola Z.

Fonte: Madri indiane ‘surrogate’, una storia di schiavismo post-moderno | UCCR.

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