Negare il ruolo dell’Islam nel terrorismo: Spiegarne il perché :: Daniel Pipes

di Daniel Pipes
Middle East Quarterly
Primavera 2013

Pezzo in lingua originale inglese: Denying Islam’s Role in Terror: Explaining the Denial

A più di tre anni dalla strage compiuta nel novembre 2009 dal maggiore Nidal Malik Hasan a Fort Hood, in Texas, non si sa ancora come classificare il suo crimine. Nella sua saggezza, il dipartimento della Difesa, con il sostegno delle forze dell’ordine, dei politici, dei giornalisti e degli accademici, ritiene che l’uccisione di tredici persone e il ferimento di altre quarantatré possa essere considerata una forma di “violenza sul posto di lavoro”. Ad esempio, lo studio di 86 pagine volto a evitare che l’episodio si ripeta, dal titolo Protecting the Force: Lessons from Fort Hood, menziona sedici volte “la violenza sul posto di lavoro”.[1]

La copertina del Middle East Quarterly della Primavera 2013.

In effetti, se il soggetto non fosse stato patologico, avrebbe potuto far sorridere la discrepanza su ciò che esattamente ha indotto il maggiore a esplodere in una rabbia cieca. Fra le varie ipotesi ventilate c’è quella che ritiene Hasan una vittima del “razzismo”, di “vessazioni perché musulmano”, di un senso di “non appartenenza”, di “problemi mentali”, di “problemi emotivi”, di “una eccessiva dose di stress”, o della possibilità di essere inviato in Afghanistan, che di fatto era il suo “peggiore incubo”, o di qualcosa che è stato definito in modo fantasioso “disturbo da stress pre-traumatico”. Un titolo di giornale, che strillava “Ciò che è passato per la testa al maggiore solitario è un mistero”, sintetizza questo stato di confusione.[2]

Al contrario, alcuni membri del Congresso hanno ridicolizzato l’ipotesi della forma di “violenza sul posto di lavoro” e una coalizione composta da superstiti e familiari delle vittime – centosessanta in tutto – ha diffuso di recente un video, “La verità su Fort Hood”, criticando l’amministrazione americana. Nel terzo anniversario del massacro, centoquarantotto persone tra superstiti e familiari delle vittime hanno citato in giudizio il governo statunitense perché si è sottratto alle responsabilità giuridiche e finanziarie, non avendo riconosciuto l’episodio come un atto di terrorismo.[3]

La leadership militare ignora deliberatamente ciò che ha sotto gli occhi, vale a dire la chiara ed evidente ispirazione islamista di Hasan; Protecting the Force menziona i termini “musulmano” e “jihad” più volte e “Islam” solo una volta, in una nota a piè di pagina.[4] Ufficialmente il massacro continua a non essere collegato al terrorismo e all’Islam.

Questo esempio s’inserisce in uno schema più ampio. L’establishment nega che l’islamismo – una forma di Islam che mira a rendere i musulmani dominanti attraverso un’estremistica, totalitaria e rigida applicazione della legge islamica, la Shari’a – rappresenti la principale causa globale del terrorismo, quando è così chiaro che lo è. L’islamismo si rifà alle norme medievali nella sua aspirazione a creare un califfato che governi l’umanità. “L’Islam è la soluzione” sintetizza la sua dottrina. Il diritto pubblico islamico può essere così schematizzato: considerare i musulmani superiori ai non-musulmani, gli uomini superiori alle donne e approvare l’uso della forza per diffondere il dominio musulmano. Negli ultimi decenni, gli islamisti (i seguaci di questa visione dell’Islam) hanno stabilito un record senza precedenti di atti di terrorismo. Per citare un elenco: TheReligionOfPeace.com conta ventimila attentati in nome dell’Islam dall’11 settembre,[5] ossia circa cinque al giorno. In Occidente, si registrano pochi atti terroristici ispirati da matrici diverse dall’Islam.

È importante documentare e spiegare questa negazione e sondare le sue implicazioni. Gli esempi provengono soprattutto dagli Stati Uniti, anche se potrebbero arrivare da qualsiasi Paese occidentale, ad eccezione di Israele.

Documentare la negazione

La copertina dello studio Protecting the Force: Lessons from Fort Hood.

Il governo, la stampa e il mondo accademico negano sistematicamente che le motivazioni islamiste giochino un duplice ruolo, costituendo una minaccia specifica e generalizzata. Gli specifici atti di violenza perpetrati dai musulmani inducono le autorità a chiudere pubblicamente, deliberatamente e con aria di sfida gli occhi davanti alle motivazioni e agli obiettivi islamisti. Piuttosto, esse puntano il dito contro una serie di motivi banali, obsoleti e individualistici, presentando spesso il perpetratore come una vittima. Ecco alcuni esempi antecedenti e successivi all’11 settembre:

  • L’assassinio del rabbino Meir Kahane, avvenuto nel 1990 a New York, è stato attribuito a “un farmaco prescritto per (…) la depressione”.[6]
  • “Una rapina andata male”, è stato detto per spiegare l’omicidio di Makin Morcos a Sidney, nel 1991.
  • “Un’uccisione non-intenzionale”, così è stato definito l’assassinio del reverendo Doug Good commesso nel 1993 nell’Australia occidentale.
  • L’attentato compiuto contro turisti stranieri ospiti di un hotel del Cairo nel 1993, che ha fatto dieci vittime, è stato attribuito a motivi connessi all’infermità mentale.[7]
  • “La rabbia di strada” ha mosso la mano dell’assassino di un ebreo chassidim sul Ponte di Brooklyn, nel 1994.[8]
  • “Molti, molti nemici nella sua mente”, per spiegare l’omicidio con arma da fuoco in cima all’Empire State Building, nel 1997.[9]
  • “Un incidente stradale”, per motivare l’attacco a un autobus di scolari ebrei nei pressi di Parigi, nel 2000.
  • Per l’aereo schiantatosi nel 2002 contro un edificio di Tampa per mano di un cittadino americano di origine araba (ma non musulmano), ammiratore di Osama bin Laden, si è puntato il dito contro l’uso del farmaco anti-acne Accutane.[10]
  • “Una controversia lavorativa” è la causa ravvisata nel duplice omicidio all’Aeroporto internazionale di Los Angeles, nel 2002.[11]
  • Un “burrascoso rapporto familiare” ha armato la mano dei cecchini del mondo politico statunitense, nel 2002.[12]
  • Si è parlato di un “problema comportamentale” per l’attacco lanciato nel 2003 da Hasan Karim Akbar contro soldati della stessa fede, uccidendone due.[13]
  • Si ritiene che “la malattia mentale” sia stata la causa dell’omicidio con mutilazione di Sebastian Sellam, nel 2003.[14]
  • “Solitudine e depressione”, per un’esplosione a Brescia, in Italia, fuori da un McDonald, nel 2004.[15]
  • Per la furia omicida scatenatasi in una casa di riposo in Virginia, nel 2005, si è parlato di “una divergenza tra l’indiziato e un altro membro del personale”.[16]
  • Una violenta azione criminosa alla Jewish Federation di Greater Seattle, nel 2006, è stata attribuita al “malanimo verso le donne”.[17]
  • “Il suo recente matrimonio combinato potrebbe averlo stressato”, è stato detto a proposito di un musulmano che ha travolto dei pedoni con il proprio Suv nella Carolina del Nord, nel 2006.[18]

Questo modello seguito per la negazione è tanto più sorprendente poiché si tratta di forme di violenza chiaramente islamiche come le operazioni suicide, le decapitazioni, i delitti d’onore e la pratica di sfigurare il volto delle donne. Ad esempio, riguardo ai delitti d’onore, Phyllis Chesler ha asserito che questo fenomeno si differenzia dalla violenza domestica e, nei Paesi occidentali, è di solito perpetrato dai musulmani.[19] Tali prove, però, non convincono le istituzioni, che tendono a escludere l’Islam dall’equazione.

Il procuratore generale degli Stati Uniti, Eric Holder, nel 2010, che evita di menzionare l’islamismo.

La minaccia generalizzata ispira più negazione. I politici e altri evitano di parlare di Islam, islamismo, musulmani, islamisti, mujaheddin o di jihadisti. Piuttosto, essi incolpano i malfattori, i militanti, gli estremisti radicali, i terroristi e al-Qaeda. Il segretario di Stato Colin Powell ne ha dato prova il giorno dopo l’11 settembre asserendo che le atrocità appena commesse “non dovrebbero essere viste come qualcosa perpetrata dagli arabi o dagli islamici, ma come opera dei terroristi”.[20]

Un’altra tattica consiste nel nascondere le realtà islamiste sotto la nebbia della verbosità. George W. Bush ne ha parlato una volta come di una “grande lotta [ingaggiata] contro l’estremismo da un capo all’altro del Medio Oriente”[21] e un’altra volta l’ha definita “la lotta contro gli estremisti ideologici che non credono nelle società libere e che utilizzano l’arma del terrorismo per tentare di scuotere le coscienze del mondo libero”.[22] Egli è arrivato al punto di scartare ogni elemento islamico asserendo che “l’Islam è una grande religione che predica la pace”.[23]

Nello stesso spirito, Barack Obama ha osservato che “è molto importante per noi riconoscere che abbiamo ingaggiato una battaglia o una guerra contro alcune organizzazioni terroristiche, ma che quelle organizzazioni non sono rappresentative di una comunità araba più ampia, una comunità musulmana”.[24] Il procuratore generale degli Stati Uniti, Eric Holder, si è lanciato nel maggio 2010 in un botta e risposta con Lamar Smith (repubblicano del Texas) nel corso della sua testimonianza davanti al Congresso, negando ripetutamente ogni genere di connessione tra le matrici islamiste e una serie di attacchi terroristici:

Smith: Nel caso di tutti e tre i falliti attentati terroristici dell’ultimo anno, (…) uno dei quali, però, è andato a segno, quegli individui non avevano nessun legame con l’Islam radicale. Lei pensa che essi possano essere stati indotti a farlo a causa dell’Islam radicale?

Holder: A causa di che cosa?

Smith: Dell’Islam radicale.

Holder: C’è una serie di ragioni perché io possa pensare che quelle persone abbiano commesso quelle azioni. Credo che dobbiamo esaminare ogni singolo caso. Intendo dire che ora parleremo del signor [Faisal] Shahzad per tentare di capire ciò che l’ha spinto ad agire.

Smith: Sì, ma l’Islam radicale avrebbe potuto essere uno dei motivi?

Holder: Esiste una serie di motivi per cui la gente…

Smith: Ma l’Islam radicale è stato uno dei motivi?

Holder: Esiste una serie di ragioni per cui la gente fa le cose. Alcune di esse possono essere di natura religiosa…[25]

E Holder ha continuato a insistere fino a quando Smith alla fine ha rinunciato a rispondere. E questa non è stata un’eccezione perché nel dicembre 2011 un alto funzionario del dipartimento della Difesa ha espresso una negazione quasi identica.[26]

Oppure si può semplicemente ignorare l’elemento islamista; uno studio pubblicato dal dipartimento per la Sicurezza nazionale dal titolo Evolution of the Terrorist Threat to the United States menziona il termine Islam una sola volta. Nel settembre 2010, Obama parlando alle Nazioni Unite ha utilizzato una costruzione passiva per evitare ogni menzione dell’Islam con riferimento all’11 settembre: “Nove anni fa, la distruzione del World Trade Center indicò una minaccia che non rispettava nessun limite di dignità né di decenza”.[27] In quello stesso periodo, Janet Napolitano, segretario di Stato alla sicurezza interna, ha dichiarato che i profili degli americani coinvolti nel terrorismo stanno a indicare che “non esiste nessun profilo ‘tipico’ di un terrorista autoctono”.[28]

Newt Gingrich, l’ex speaker della Camera dei Rappresentanti americana, condanna a giusto titolo questa mentalità dicendo che “due più due deve essere eguale a qualcosa di diverso da quattro”.[29]

Le eccezioni alla negazione

Le eccezioni a questo modello esistono: all’occasione le figure istituzionali abbassano la guardia e riconoscono la minaccia islamista per il mondo civilizzato. Nel 2010, lo stesso Gingrich ha pronunciato un discorso ben documentato sulla Shari’a (la legge islamica), osservando che “questa non è una guerra al terrorismo. Il terrorismo è un’attività. Questa è una lotta contro gli islamisti radicali che siano militanti o che agiscano furtivamente”.[30]

Nel 2006, il premier britannico Tony Blair ha fornito un’analisi appassionante ed eloquente:

Questa è una guerra ma di un genere del tutto non convenzionale. (…) Quali sono i valori che governano il futuro del mondo? Sono quelli della tolleranza, della libertà, del rispetto per la differenza e la diversità oppure quelli della reazione, della divisione e dell’odio? (…) È in parte una lotta fra ciò che chiamerò Islam reazionario e Islam moderato, l’Islam predominante. Ma le sue implicazioni sono ben più ampie. Stiamo combattendo una guerra, non solo contro il terrorismo ma su come il mondo dovrebbe governarsi all’inizio del XXI secolo, riguardo ai valori globali.[31]

L’attuale primo ministro britannico, David Cameron, nel 2005, ha formulato una bella analisi, molto tempo prima che ricoprisse l’attuale incarico:

La forza motrice che si cela dietro la minaccia terroristica odierna è il fondamentalismo islamista. La lotta in cui siamo impegnati è essenzialmente ideologica. Nel secolo scorso, si è sviluppata una corrente di pensiero islamista che, al pari di altri totalitarismi, come il nazismo e il comunismo, offre ai suoi seguaci una forma di redenzione attraverso la violenza.[32]

Nel 2011, da premier, Cameron è tornato ad affrontare quest’argomento: “Noi dobbiamo essere assolutamente chiari sulla matrice di questi attacchi terroristici, ossia sull’esistenza di un’ideologia qual è l’estremismo islamico”.[33]

L’ex-ministro della Repubblica Ceca, Alexandr Vondra, ha espresso la sua opinione con insolita franchezza.

L’ex-ministro della Repubblica Ceca, Alexandr Vondra, ha espresso la sua opinione con notevole franchezza:

Gli islamisti radicali sfidano quasi ogni cosa che la nostra società difende, non importa ciò che le politiche occidentali sono state o sono. Queste sfide includono il concetto dei diritti umani universali e la libertà di parola ed espressione.[34]

Nel periodo successivo all’ottobre 2005, George W. Bush ha parlato di “islamo-fascismo” e di “fascisti islamici”. Joseph Lieberman, il senatore americano del Connecticut, ha criticato chi rifiuta di “identificare il nostro nemico in questa guerra per quello che è: violento estremismo islamista”[35] e ha promosso un eccellente studio del Senato sul maggiore Hasan. Rick Santorum, allora senatore Usa della Pennsylvania, ha fornito un’analisi rilevante:

Nella Seconda guerra mondiale abbiamo combattuto il nazismo e l’imperialismo giapponese. Oggi, combattiamo contro i fascisti islamici. Ci hanno attaccato l’11 settembre perché siamo l’ostacolo maggiore alla loro missione apertamente dichiarata di sottomettere il mondo intero al loro dominio fanatico. Credo che la minaccia del fascismo fanatico sia pericolosa come quella del nazismo e del comunismo sovietico. Ora come allora, ci troviamo di fronte a dei fanatici che non si fermeranno davanti a nulla per dominarci. Ora come allora non c’è via d’uscita: vinceremo o perderemo.[36]

Antonin Scalia, un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, in un parere ha osservato che “l’America è in guerra con gli islamisti radicali”.[37] Uno studio del Dipartimento di Polizia di New York, Radicalization in the West: The Homegrown Threat, parla di “terrorismo di matrice islamica” sin dalla prima riga del testo sino alla fine. Esso contiene riferimenti espliciti all’islamismo, del genere, “in definitiva, il jihadista immagina un mondo in cui l’Islam salafita-jihadista è dominante ed è la base del governo”.[38]

Così la realtà occasionalmente fa capolino dalla nebbia della negazione e della verbosità.

Il mistero della negazione

A parte queste eccezioni, perché c’è una persistente negazione della matrice islamica? Perché la pretesa che non ci sia nessuna verità evidente che viene ignorata? Una mancanza di volontà ad affrontare la verità sa sempre di eufemismo, codardia, correttezza politica e di appeasement. In questo spirito, Gingrich argomenta che “l’amministrazione Obama è volutamente incapace di vedere la natura dei nostri nemici e delle forze che minacciano l’America. (…) non è ignoranza, ma un deciso tentativo di sfuggire alla realtà”.[39]

Questi problemi contribuiscono certamente alla negazione, ma qualcosa di più elementare e legittimo arriva a spiegare questa riluttanza. Un suggerimento proviene da una tesi di dottorato in Scienze Politiche, discussa da Gaetano Ilardi alla Monash University di Melbourne, nel 2007. Il titolo, “Dall’Ira ad Al Qaeda: L’intelligence come misura di azione razionale nelle operazioni terroristiche”, fa spesso riferimento all’Islam e agli argomenti correlati; Ilardi è stato citato dalla stampa sul tema della radicalizzazione. Eppure, nel 2009, in veste d’ispettore della polizia di Victoria, è stato il più ostinato dei suoi venti colleghi a dirmi che la polizia non menziona pubblicamente in alcun modo l’Islam quando parla di terrorismo. In altre parole, chi non fa riferimento all’Islam è qualcuno che conosce molto bene il ruolo dell’Islam.

Daniel Benjamin, coordinatore per la lotta al terrorismo del dipartimento di Stato americano.

Confermando questo punto, Daniel Benjamin, coordinatore per la lotta al terrorismo del dipartimento di Stato nell’amministrazione Obama, ricusa esplicitamente l’idea che il silenzio sull’Islam significa essere ignari di esso:

Chi prende le decisioni politiche sa bene che gli ideologi di al-Qaeda si sono appropriati dei testi e dei concetti islamici ammantandoli di legittimità religiosa per il loro spargimento di sangue. Avendo io scritto a lungo su come al-Qaeda e i gruppi radicali che l’hanno preceduta abbiano attinto e scelto fra i testi sacri, spesso fuori da tutto il contesto, non ho alcun dubbio che i miei colleghi comprendano la natura della minaccia.[40]

Ilardi e Benjamin sanno il fatto loro; essi evitano di parlare di Islam in relazione al terrorismo per ragioni più profonde della correttezza politica, dell’ignoranza o dell’appeasement. Quali sono questi motivi? Due fattori hanno un’importanza fondamentale: non voler alienarsi i musulmani e non voler riordinare la società.

Spiegare la negazione

Non voler offendere i musulmani, un obiettivo sincero e ragionevole, è il motivo più spesso citato pubblicamente. I musulmani protestano perché concentrare l’attenzione sull’Islam, l’islamismo o sul jihad aumenta i timori musulmani che l’Occidente abbia ingaggiato una “guerra contro l’Islam”. Joseph Lieberman, ad esempio, osserva che l’amministrazione Obama preferisce non usare il termine “estremisti islamisti violenti” con riferimento al nemico, perché usare questa parola esplicita “rafforza la rivendicazione di propaganda del nostro nemico che l’Occidente è in guerra con l’Islam”.[41]

Interrogato in un’intervista sul fatto di aver utilizzato una sola volta il termine “guerra al terrore”, Barack Obama ha confermato questo punto: “Le parole contano in questa situazione, perché uno dei modi che ci permetteranno di vincere questa battaglia è la lotta per accattivarci i cuori e le menti”. Alla domanda “Allora questo non è un termine che utilizzerà molto in futuro'”, egli ha risposto:

Sa, vorrei fare in modo di parlare sempre di al-Qaeda e di altre organizzazioni affiliate perché credo che noi possiamo convincere i musulmani a riconoscere che quel tipo di distruzione e nichilismo alla fine porterà a un vicolo cieco e che dovremmo lavorare insieme per fare in modo che tutti abbiano una vita migliore.[42]

Daniel Benjamin ribadisce la stessa cosa in modo più lucido:

Porre l’accento sul termine “islamista” piuttosto che su “estremista violento” mina i nostri sforzi, poiché radica erroneamente il problema fondamentale nella fede di oltre un miliardo di persone che aborrono la violenza. Come mostrato da uno studio dopo l’altro del governo interno, tali dichiarazioni finiscono con l’essere distorte dai media di tutto il mondo, alienandosi i musulmani moderati.[43]

Questa preoccupazione ha in realtà due sottoparti per due tipi di musulmani: quelli che altrimenti aiuterebbero a combattere il terrorismo si sentono insultati (“un vero musulmano non può mai essere un terrorista”) e così non fanno un passo avanti mentre quelli distaccati dal problema si radicalizzano, qualcuno addirittura diventa terrorista.

La seconda ragione per impedire che si parli di Islam è legata al timore che ciò implichi un grande e indesiderato cambiamento inconciliabile con il modo in cui le società occidentali laiche sono ordinate. Addossare la colpa degli attacchi terroristici all’abuso di droga, alla rabbia di strada, a un matrimonio combinato, ai malati mentali che diventano una furia o alle bizzarre controversie lavorative permette agli occidentali di non affrontare le questioni che riguardano l’Islam. Se la spiegazione del jihad è di gran lunga la più convincente, è anche assai più preoccupante.

Quando si osserva che il terrorismo islamista è quasi esclusivamente opera dei musulmani che agiscono così a causa delle convinzioni islamiche, l’implicazione che ne risulta è che i musulmani devono essere sottoposti a una sorveglianza speciale, forse secondo le seguenti linee di condotta che il sottoscritto ha suggerito nel 2003:

Gli impiegati governativi di fede musulmana operanti nelle forze dell’ordine, nell’esercito e in campo diplomatico, devono essere tenuti d’occhio per verificare se abbiano legami con il terrorismo, come pure i cappellani musulmani delle prigioni e delle forze armate. I turisti e gli immigranti musulmani devono sottoporsi a ulteriori controlli. Le moschee richiedono un esame minuzioso ancor più attento di quello riservato alle chiese e ai templi.[44]

Attuare una tale linea politica significa concentrare l’attenzione delle forze dell’ordine su una comunità che è definita dalla sua religione. Questo è in palese contraddizione con i valori liberali, multiculturali e del politicamente corretto; ma sarà dipinto anche come illegale e forse anticostituzionale. Ciò comporta che si operi una distinzione sulla base delle caratteristiche del gruppo cui una persona appartiene. E richiede anche che si tracci un profilo Questi cambiamenti hanno delle implicazioni inquietanti che saranno stigmatizzate come “razziste” e “islamofobiche”, accuse che possono rovinare una carriera nell’ambito pubblico di oggi.

Le spiegazioni correlate all’Islam possono offrire una spiegazione più convincente del trasformare i perpetratori in vittime, ma l’imperativo di non alterare i costumi sociali esistenti ha la meglio sul controterrorismo. Questo spiega perché la polizia, i pubblici ministeri, i politici e gli accademici evitano i fattori reali che stanno dietro agli attacchi islamisti e trovano invece vari motivi banali. Queste banalità rassicuranti e inesatte hanno il vantaggio di non comportare dei cambiamenti eccetto la vigilanza contro le armi. Affrontare le realtà sgradevoli può essere procrastinato.

In definitiva, la negazione sembra funzionare. Solo perché le forze dell’ordine, l’esercito e le agenzie d’intelligence trattano con cautela i due argomenti paralleli della motivazione islamica e del terrorismo islamista sproporzionato quando si rivolgono all’opinione pubblica, ciò non impedisce a queste istituzioni di concentrarsi tranquillamente sull’Islam e i musulmani. A dire il vero, ci sono molte prove che fanno proprio questo e ciò ha portato dopo l’11 settembre a un efficace sforzo di controterrorismo con un attento controllo su ogni cosa dalle moschee all’hawala, un meccanismo di trasferimento di liquidità completamente basato sulla fiducia, senza strumenti formali, che si è diffuso nei Paesi a maggioranza musulmana. Di conseguenza, con rare eccezioni (come il tiratore di Fort Hood), le reti terroristiche islamiche tendono a essere ostacolate e gli attacchi terroristici che vanno a segno tendono a venir fuori dal nulla, commessi da perpetratori caratterizzati da “un’improvvisa sindrome da jihad instinct”.

Argomentare contro la negazione

Pur rispettando il forte impulso a non irritare la sensibilità dei musulmani e riconoscendo che il dibattito franco e aperto sull’Islam può avere importanti conseguenze nel dirigere la società, il sottoscritto insiste sulla necessità di menzionare l’Islam. Innanzitutto, non è chiaro quanto in realtà danneggi il parlare di Islam. I veri musulmani anti-islamisti insistono sulla necessità di parlare dell’Islam: gli islamisti che si fanno passare per moderati tendono a essere quelli che fingono di preoccuparsi per “una guerra all’Islam” e così via dicendo.

In secondo luogo, piccole prove indicano che i musulmani si sono radicalizzati per via del mero dibattito sull’islamismo. Anzi, al contrario, in genere è qualcosa di specifico che conduce un musulmano in quella direzione, dal modo di vestire delle donne americane agli attacchi con droni in Somalia, Yemen e in Pakistan.

In terzo luogo, pur ammettendo che il dibattito sull’Islam ha i suoi costi, ignorarlo costa più caro. La necessità di definire il nemico, non solo in seno ai consigli di guerra ma per l’opinione pubblica, trionfa su tutte le altre considerazioni. Come ha osservato l’antico stratega cinese Sun Tzu, “Conosci il tuo nemico e te stesso, e potrai combattere cento battaglie”. L’intera teoria sulla guerra di Karl von Clausewitz presuppone un’accurata valutazione del nemico. Proprio come un medico deve diagnosticare e dare un nome a una malattia prima di curarla, così i politici e i generali devono identificare e dare un nome al nemico per sconfiggerlo.

Autocensurarsi limita la capacità di fare la guerra. Evitare di menzionare l’identità del nemico semina confusione, danneggia il morale e spreca le forze. In breve, ciò offre una ricetta per la sconfitta. In effetti, gli annali della storia non registrano nessuna guerra vinta quando il nome e l’identità del nemico non possono essere pronunciati; ed è così a maggior ragione nei tempi moderni quando dare un nome al nemico deve precedere e incoraggiare la vittoria militare. Se non si può dare un nome al nemico non si può sconfiggerlo.

In quarto luogo, anche se le forze dell’ordine e gli altri ritengono che funzioni dire una cosa in pubblico pur facendone un’altra in privato, questa disonestà costa cara perché crea una discrepanza fra i discorsi ambiziosi dei politici e le realtà talvolta sordide della lotta al terrorismo:

  • Coloro che lavorano in prima linea per il governo sono a rischio: Da una parte, per paura di essere esposti, i dipendenti pubblici devono nascondersi o mentire sulle loro attività. Dall’altra, per svolgere con efficacia il loro compito, essi corrono il rischio di essere accusati di contravvenire alle disposizioni governative deliberatamente imparziali o perfino di infrangere la legge.
  • L’opinione pubblica è confusa: I discorsi politici scartano a fin di bene ogni collegamento fra l’Islam e il terrorismo, mentre la lotta al terrore induce implicitamente a fare una simile connessione.
  • Avvantaggiare gli islamisti: 1) Essi sottolineano che le dichiarazioni rilasciate dal governo non sono altro che una montatura volta a camuffare quella che in realtà è una guerra contro l’Islam; e 2) fanno reclute tra i musulmani chiedendo loro in chi credono, negli islamisti che parlano apertamente o nei politici ipocriti.
  • Daniel Benjamin, coordinatore per la lotta al terrorismo del dipartimento di Stato americano.

    La messinscena della sicurezza” e altre pantomime: Per convincere gli osservatori che i musulmani non sono i soli a essere presi di mira, altri sono stati tirati dentro per dimostrare di voler trattare allo stesso modo tutti i passeggeri aerei, sprecando così tempo e risorse.[45]

  • Un aumento dei risentimenti e dei pregiudizi: Le persone tengono la bocca chiusa ma la loro mente lavora. Un dibattito pubblico aperto, in cui si potrebbero condannare gli islamisti appoggiando i musulmani moderati, porterebbe a una migliore comprensione del problema.
  • La vigilanza scoraggiata: La campagna del “Se vedi qualcosa, di’ qualcosa” è ottima ma quali sono le conseguenze del segnalare un comportamento sospetto di un vicino o di un passeggero aereo che in seguito si rivela essere innocente? Anche se i vicini vigili sono una risorsa importante nella lotta al terrorismo, chiunque segnali le proprie preoccupazioni si espone alle accuse diffamanti di essere razzista o “islamofobo”, rischia di subire dei danni alla propria carriera o anche un’azione giudiziaria.[46]

Pertanto, il non voler riconoscere i moventi islamisti che stanno dietro la maggior parte delle azioni terroristiche perpetrate ostacola un’attività antiterroristica efficace e rende altre atrocità ancor più probabili.

Quando la negazione avrà fine

La negazione potrebbe continuare fino a quando il prezzo da pagare sarà troppo caro. Sembra che le tremila vittime dell’11 settembre non siano bastate a far vacillare la compiacenza occidentale. Trentamila morti, con ogni probabilità, non basteranno egualmente. Forse trecentomila saranno sufficienti. Di certo, lo saranno tre milioni. A quel puto, le preoccupazioni di offendere la sensibilità musulmana e la paura di essere definiti “islamofobi” saranno irrilevanti, rimpiazzate da una determinazione ostinata a proteggere la vita. Se l’ordine esistente un giorno sarà in evidente pericolo, l’approccio rilassato di oggi sarà immediatamente gettato alle ortiche. Il sostegno popolare a favore di queste misure esiste; già nel 2004, un sondaggio della Cornell University mostrava che il 44 per cento degli americani “crede che una certa riduzione delle libertà civili sia necessaria per gli americani musulmani”.[47]

Israele offre un esempio calzante. Poiché esso si trova a dover affrontare molte minacce, lo Stato manca di pazienza verso la pietà magnanima quando si tratta di sicurezza. Pur aspirando a trattare tutti con equità, il governo prende di mira gli elementi della società più inclini alla violenza. Se altri Paesi occidentali dovessero affrontare un pericolo come questo, probabilmente le circostanze li costringerebbero ad adottare questo stesso approccio.

Al contrario, se non dovessero sorgere tali pericoli di massa, questo cambiamento probabilmente non avrà luogo. Finché non saremo colpiti da un disastro su larga scala, la negazione proseguirà. Le tattiche dell’Occidente, in altre parole, dipendono interamente dalla brutalità e dalla competenza del nemico islamista. Ironia della sorte, l’Occidente permette ai terroristi di condurre il suo approccio alla lotta al terrorismo. Non meno ironicamente, ci vorrà un’enorme atrocità terroristica per permettere una lotta efficace al terrorismo.

Affrontare la negazione

Intanto, chi desidera rafforzare la lotta al terrorismo riconoscendo il ruolo dell’Islam ha tre compiti da svolgere.

Innanzitutto, bisognerà prepararsi intellettualmente e preparare gli argomenti in modo che quando si abbatterà una calamità, si potrà avere un programma ben elaborato, accurato ed equo che si concentri sui musulmani senza commettere un’ingiustizia contro di loro.

In secondo luogo, si dovrà continuare a convincere chi è contrario a menzionare l’Islam che vale la pena parlarne: il che significa occuparsi delle loro preoccupazioni e non intimidirli a suon d’insulti. Questo implica accettare la legittimità della loro esitazione, utilizzando il buonsenso e lasciando che la raffica di attacchi islamisti abbia il suo effetto.

In terzo luogo, occorre dimostrare che parlare d’islamismo non conduce alla rovina ravvisando nei danni causati dal non dare un nome al nemico e dal non identificare l’islamismo un fattore di rischio; bisogna notare che i governi musulmani, compreso quello saudita, riconoscono che l’islamismo conduce al terrorismo; mettere in rilievo che i musulmani moderati che si oppongono all’islamismo vogliono che si parli apertamente di islamismo; bisogna ovviare alla paura che il parlare apertamente di Islam aliena i musulmani e incita alla violenza; e dimostrare che il profilo può essere fatto in un modo costituzionalmente riconosciuto.

In breve, anche senza sperare di attuare un cambiamento nella politica, c’è molto lavoro da fare.

[1] Protecting the Force: Lessons from Fort Hood, Department of Defense, Washington, D.C., Jan. 2010.
[2] The Australian, Nov. 7, 2009.
[3] The Australian, Nov. 7, 2009.
[4] Protecting the Force: Lessons from Fort Hood, p. 18, nota 22.
[5] “List of Islamic Terror Attacks”, TheReligionOfPeace.com, consultata il 19 dicembre 2012.
[6] The New York Times, Nov.9, 1990.
[7] The Independent (London), Sept. 19, 1997.
[8] Uriel Heilman, “Murder on the Brooklyn Bridge”, Middle East Quarterly, Summer 2001, pp. 29-37.
[9] The Houston Chronicle, Feb. 26, 1997.
[10] Time Magazine, Jan. 21, 2002.
[11] “Terror in LA?” Honest Reporting (Toronto), July 8, 2002.
[12] Los Angeles Times, Oct. 26, 2002.
[13] Daniel Pipes, “Murder in 101st Airborne”, The New York Post, Mar. 25, 2003.
[14] Brett Kline, “Two Sons of France”, The Jerusalem Post Magazine, Jan. 21, 2010.
[15] “Italy: McDonald’s Jihad Foiled”, Jihad Watch, Mar. 30, 2004.
[16] The Washington Post, Jan. 11, 2005..
[17] Los Angeles Times, July 30, 2006..
[18] San Francisco Chronicle, Aug. 30, 2006.
[19] Phyllis Chesler, “Are Honor Killings Simply Domestic Violence?”Spring 2009, pp. 61-9.
[20] Dateline, NBC, Sept. 21, 2001..
[21]Remarks, The Islamic Center of Washington, D.C., June 27, 2007.
[22] Remarks, UNITY 2004 Conference, Washington D.C., Aug. 6, 2004.
[23] Al-Arabiya News Channel (Dubai) Oct. 5, 2007.
[24] Anderson Cooper 360 Degrees, Feb. 3, 2009.
[25] Testimonianza resa il 13 maggio 2010 davanti alla Commissione giudiziaria del Congresso americano.
[26] Testimonianza resa il 13 dicembre 2001 davanti alla Commissione per la sicurezza nazionale del Congresso americano.
[27] Osservazioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, New York, 23 settembre 2010.
[28] “Nine Years after 9/11: Confronting the Terrorist Threat to the Homeland”, intervento davanti alla Commissione per la Sicurezza nazionale e gli Affari governativi del Senato americano, 22 settembre 2010.
[29] Newt Gingrich, “America Is at Risk”, American Enterprise Institute, Washington, D.C., July 29, 2010.
[30] Ibidem.
[31] Discorso al Los Angeles World Affairs Council, 1° agosto 2006.
[32] Discorso al Foreign Policy Centre, Londra, 25 agosto 2005..
[33] Munich Security Conference, Feb. 5, 2011..
[34] Alexandr Vondra, “Radical Islam Poses a Major Challenge to Europe”, Middle East Quarterly, Summer 2007, pp. 66-8.
[35] Joseph Lieberman, “Who’s the Enemy in the War on Terror?” The Wall Street Journal, June 15, 2010.
[36] “The Great Test of This Generation”, discorso pronunciato al National Press Club, Washington, D.C., National Review Online, July 20, 2006.
[37] Scalia J., parere che dissente da quello espresso dai colleghi riguardo a Lakhdar Boumediene, et al., Petitioners, Supreme Court of the United States v. George W. Bush, President of the United States, et al.; Khaled A. F. Al Odah, next friend of Fawzikhalid Abdullah Fahad Al Odah, et al., Petitioners v. United States, et al., June 12, 2008.
[38] New York: 2007, p. 8.
[39] Newt Gingrich, “America Is at Risk”, American Enterprise Institute, Washington, D.C., July 29, 2010.
[40] Daniel Benjamin, “Name It and Claim It, or Name It and Infame It?” The Wall Street Journal, June 24, 2010.
[41] Lieberman, “Who’s the Enemy in the War on Terror?”
[42] Anderson Cooper 360 Degrees, Feb. 3, 2009.
[43] Benjamin, “Name It and Claim It, or Name It and Inflame It?”
[44] Daniel Pipes, “The Enemy Within and the Need for Profiling”, The New York Post, Jan. 24, 2003.
[45] Daniel Pipes, “Body Scanner? No, intelligenza”, Liberal, 7 gennaio 2010.
[46] M. Zuhdi Jasser, “Exposing the ‘Flying Imams'”, Middle East Quarterly, Winter 2008, pp. 3-11.
[47] “Fear Factor”, Dec. 17, 2004.

Fonte: Negare il ruolo dell’Islam nel terrorismo: Spiegarne il perché :: Daniel Pipes.

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