Nepal, il dramma di madri e bimbi “deportati” | La Nuova Bussola Quotidiana

di Luigi Santambrogio 02-05-2015

Dice bene Reinhold Messner, il nostro grande Buddha degli ottomila, quando invita a distogliere lo sguardo da quel disgraziato campo base ai piedi dell’Everest dove la valanga ha sepolto almeno 200 alpinisti. E dove la macchina dei soccorsi, quella di seria A, con gli elicotteri che vanno e vengono come in una base del Pentagono, a portare in salvo l’elite dell’alpinismo mondiale. Il vecchio conquistatore ce l’ha con «l’arroganza con cui i turisti salgono in vetta sulle piste preparate dagli sherpa». Poveracci che si dannano, e fanno il lavoro sporco per far assaporare agli scalatori californiani, tedeschi, francesi, svedesi o chissàchi l’ebbrezza di piantare le loro bandiere e foto ricordo sul tetto del mondo, e che «magari quando torneranno a casa non la troveranno più». Messner ce l’ha con il turismo di massa che ha trasformato l’Everest in un luna park, con il “viaggio globale” e l’alpinismo “all inclusive” che ammassa centinaia di dilettanti  a 7mila metri, in luoghi dove è proibito scherzare. Già, anche questo imprevisto ci ha rivelato la tremenda tragedia del Nepal: il colonialismo delle cime, in un Paese che ha saputo opporsi a ogni forma di sottomissione esterna, prima agli inglesi poi ai maoisti della Cina rossa.

Ma sotto le rovine degli antichi templi di Kathmandu e dei villaggi sperduti non ancora raggiunti dai soccorsi, ecco spuntare un’altra verità, ancora più grave e inquietante. La notizia l’ha data La Stampa l’altro giorno: l’esercito israeliano ha creato in 72 ore un ospedale da campo a Kathmandu per soccorrere le vittime del terremoto e gli aerei Hercules che fanno la spola con Tel Aviv riportano indietro non solo turisti feriti o spaventati ma anche un numero considerevole di bambini nati da madri surrogate nepalesi. Spingendo il governo a consentire anche a queste donne di essere accolte in Israele. Fenomeno sconosciuto alla stessa opinione israeliana informata dalla testimonianza del signor Omri Lanzet, tornato su un aereo privato assieme al figlio di 10 giorni avuto da una madre nepalese. La sua testimonianza ha consentito al grande pubblico di venire a conoscenza dell’esistenza di altre 5 famiglie con bambini appena nati da nepalesi e di almeno altre due donne nepalesi che hanno fatto nascere nelle ultime settimane, o portano in grembo bambini con dna di genitori israeliani. Il governo ha acconsentito di portare in salvo e a ospitare sugli aerei le «madri surrogate di bambini israeliani» insieme  ai sopravvissuti al sisma.

Sono state le compagnie assicurative, ci sa sapere ancora La Stampa, a fornire al governo la lista dei bambini in arrivo dal Nepal, con i relativi nomi delle donne locali, tutte firmatarie di accordi legali con i nuovi genitori israeliani. Il corrispondente da Gerusalemme del quotidiano torinese commenta così: «Aver accettato di far nascere un figlio non proprio si sta dimostrando per queste nepalesi un biglietto verso una nuova vita».  Vero: nella immensa disgrazia di un Paese sbriciolato e devastato dal terremoto, quelle donne e i loro bimbi in grembo hanno la “fortuna” di aver salva la vita e di poterla ricominciare da un’altra parte. Ma è davvero così? Difficile crederlo: più probabile che le madri nepalesi vengano “ospitate” solo il necessario a portare a termine la gravidanza e poi rispedite in Nepal. Ma in quel commento così reticente e pieno di bontà prêt-à-poter, c’è dell’altro, c’è qualcosa di inaccettabile che in qualche modo ricorda le parole dure del vecchio Messner. In fondo, dice il giornalista, quelle donne nepalesi, accettando di mettere sul mercato il loro utero, hanno vinto un biglietto d’espatrio, una sorta di green card verso i paradisi della civiltà occidentale. Benvenuti «nella nuova vita»: in quella frasetta, retorica e stupida, c’è tutta l’arroganza e la violenza dello sfruttamento coloniale. Ringraziate, sciagurate donne del Nepal, il terremoto e la società civilizzata del mercato degli ovuli e degli uteri, se avete avuto la fortuna insperata di lasciare le vostre puzzolenti e misere capanne di fango e imbarcarvi verso il futuro.

La povera gente del Nepal non merita anche questo sconquasso della loro dignità: dietro il nuovo diritto, sancito anche in Italia per via giudiziaria, alla fecondazione eterologa, si nasconde solo una nuova schiavitù. Quelle delle donne dei Paesi della fame e della povertà e la definitiva trasformazione dei figli in categoria merceologica, con uteri in affitto e compravendita di gameti. Come chiamare “vita nuova” questa deportazione di grembi materni, di donne diventate preziose e degne di salvezza solo perché “produrranno” un figlio su ordinazione di ricche coppie di Tel Aviv? Somigliano a quei disgraziati usati dai narcos colombiani per trasportare ovuli di cocaina nascosti nei loro intestini: anche le madri di Kathmandu si sono guadagnate un posto sugli Hercules governativi solo perché hanno in pancia “qualcosa” che non gli appartiene più: una vita comprata a migliaia chilometri di distanza e diventata il passaporto per fuggire dall’inferno di polvere e sassi.  Povero Nepal, e poveri noi. Se c’è ancora una speranza, per loro e per tutti,  è in quel bimbo di quattro mesi estratto vivo dalle macerie dopo essere rimasti sepolto per 22 ore. La foto (sotto il titolo) del piccino coperto di polvere ha fatto il giro del mondo: respirava ancora, miracolosamente, dopo quella infinità di tempo trascorsa sotto i detriti. La vita è più forte della violenza della natura e resiste a ogni manipolazione degli uomini.

Sorgente: Nepal, il dramma di madri e bimbi “deportati”

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