Nigeria croce e speranza – MissiOnLine.org

di Anna Pozzi

Viaggio nel Paese africano funestato dagli scontri interreligiosi e dagli attacchi di Boko Haram. Dove si intrecciano interessi economici e di potere. E la Chiesa soffre, ma mostra anche grande coraggio e vitalità.

«Ottanta milioni di cristiani. Ottanta milioni di musulmani. Che vivono insieme. Dobbiamo partire da qui». Il cardinal John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, comincia da quella che per lui è un’evidenza. Il suo Paese, la Nigeria, è uno dei più grandi esperimenti di convivenza islamo-cristiana. «Certo, c’è Boko Haram e ci sono altre situazioni di scontri e violenze. Ma Boko Haram è un piccolo gruppo. Se ci mettiamo insieme, musulmani e cristiani, possiamo sconfiggerli».

Nella sua residenza di Abuja, per nulla protetta da cancelli o guardie, parla volentieri e a ruota libera. Sono problemi che lo interpellano profondamente e che lo vedono in prima linea nel cercare vie di dialogo e pacificazione. «Non dobbiamo avere paura!», ripete spesso. Lui, per primo, dà l’esempio. Niente controlli, niente guardie del corpo. Questa “accessibilità” contrasta con gli apparati di sicurezza che si vedono altrove in Nigeria attorno alle chiese e ai loro pastori. «Quelli che hanno body guard mettono a rischio anche la loro vita», dice convinto. Lui si gioca in prima persona.

Ci crede davvero, il cardinal Onaiyekan, a una possibile via d’uscita dalla spirale di violenza e terrorismo che tiene in ostaggio le regioni settentrionali della Nigeria. Una situazione che si trascina da quando, alla fine del 1999, lo Stato di Zamfara ha introdotto la sharia (legge coranica) seguito da altri 11 Stati; ma soprattutto da quando, nel 2009, il gruppo terroristico Boko Haram ha cominciato a colpire con attacchi, attentati e autobombe obiettivi governativi e luoghi di culto cristiani. Lotte di potere, politiche ed economiche si intrecciano a diatribe per il controllo della terra tra pastori musulmani e agricoltori cristiani. Su tutto questo si è inserito l’elemento devastante del terrorismo islamista di Boko Haram: un gruppo di fondamentalisti che da Maiduguri, Stato di Borno, il più martoriato, ha esteso la sua funesta capacità di colpire a tutto il nord, arrivando a ferire gravemente anche la capitale Abuja (attentato contro la sede Onu del 26 agosto del 2011, con 24 morti ) e minacciando persino Lagos.

Il cardinale sta anche mettendo in campo tutta la sua autorevolezza per promuovere qualche forma di dialogo e di incontro. Con i musulmani, in prima istanza. Ha appoggiato, ad esempio, le iniziative del Sultano di Sokoto, uno dei più potenti del Paese, che ha proposto di concedere l’amnistia ai membri di Boko Haram. «Ritengo l’appello del Sultano – ha commentato il cardinale – come un invito ad approfondire il dibattito e il dialogo tra i nigeriani per mettere a fuoco l’azione di governo in questa materia. Questa discussione è iniziata e per questo dobbiamo ringraziare il Sultano e la sua proposta coraggiosa. In ogni conflitto arriva il tempo del dialogo in vista della soluzione finale. Sembrerebbe che per Boko Haram tale momento sia giunto».
Non tutti sono d’accordo. Anzi. Per questo, Onaiyekan invita anche le altre confessioni cristiane a essere unite e a non ridurre semplicisticamente la complessa situazione del nord a una questione di persecuzione religiosa. È quanto sta facendo in questi ultimi tempi l’Associazione dei cristiani della Nigeria (Can), da quando lui non è più presidente (e ne è entrato in forte polemica).

«Indicare nel solo elemento religioso la causa del conflitto rischia di creare una profezia che si auto-avvera», aveva avvertito anche una delegazione congiunta cristiano-islamica, guidata dal segretario del Consiglio Mondiale delle Chiese, Olav Fyske Tveit, e dal Principe giordano Ghazi bin Muhammad. Per evitare questa deriva – in parte già in corso – i vescovi cattolici non perdono occasione di mostrare la complessità di ciò che sta accadendo nella loro terra e di chiedere che ciascuno – a cominciare dalle autorità governative – si assuma le proprie responsabilità. Un aspetto su cui insiste anche mons. Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale. La sua diocesi si trova in una delle regioni più straziate dagli scontri tra comunità cristiane e musulmane e dagli attacchi di Boko Haram. Dopo una serie impressionante di violenze e attentati, che hanno provocato migliaia di morti dal 2001 in poi, oggi la città è protetta da un susseguirsi impressionante di posti di blocco, lungo le vie di accesso, e dalla presenza massiccia di forze dell’ordine al suo interno. Una protezione soprattutto contro gli attacchi di Boko Haram, che nel marzo del 2012 aveva preso di mira la chiesa di St. Finbarr, dove un’autobomba ha ucciso quattordici persone, ferendone molte altre. Ma questa massiccia presenza militare in città non impedisce gli scontri che stanno devastando i villaggi attorno a Bokkos, dove gruppi di pastori fulani musulmani hanno attaccato i villaggi di agricoltori birom cristiani, provocando decine di morti e oltre 4 mila sfollati.

«Ma non è una questione religiosa – insiste l’arcivescovo Kaigama -. Continuo a ripeterlo, ma alcuni non vogliono sentire. È più facile insistere sull’elemento religioso perché rappresenta un forte marchio identitario. Questo non fa che nascondere i veri problemi che sono di ordine politico , economico e legati al possesso della terra. Gli uni intrecciati agli altri. E Boko Haram è solo un elemento della crisi. Quando sono loro ad attaccare è chiaro. Ma il quadro generale è molto più complesso e non aiuta ridurlo in termini di lotta tra cristiani e musulmani».La gente, però, è un po’ smarrita. Soprattutto chi è stato colpito direttamente dalle violenze.
«Quando sono entrati in casa – racconta Simon Balan, catechista di Mangor e padre di sette figli – hanno cominciato a chiedere soldi. Hanno minacciato di ucciderci. Ho dato il poco che avevo. Se ne sono andati senza farci niente. Siamo stati fortunati. Altrimenti ti ammazzano, così!». E fa un gesto come per dire che per quelli la vita non vale nulla.

Oggi Simon e la sua famiglia si trovano accampati nella parrocchia St.Thomas a Bokkos, insieme ad altri trecento sfollati. Lui torna di tanto in tanto al villaggio, ma di notte dorme in savana. «La situazione è ancora troppo pericolosa», dice. «Qui in parrocchia, facciamo quello che possiamo – interviene il parroco, don Andrew Danjuma Dewan, che sta ricevendo una delegazione della Commissione giustizia, sviluppo e pace della diocesi di Jos, che porta generi di prima necessità e coperte -. Cerchiamo di dare almeno un riparo e un po’ di sicurezza. Ma le autorità non ci aiutano. Il governo locale non garantisce neppure un po’ di protezione».

A Jos, invece, è la famiglia di Joseph che vive oggi una situazione di grande sofferenza. Una madre, cinque figli, due nipoti. Lei, Regina, è rimasta vedova nel marzo dello scorso anno, quando suo marito è saltato in aria nell’attentato kamikaze alla chiesa di St. Finbarr. «Grazie a lui però – dice il genero – molta altra gente si è salvata. Ha capito che c’era qualcosa di strano su quell’auto e ha impedito che entrasse dal cancello. Così è esplosa prima di scagliarsi contro la chiesa, evitando una strage peggiore». La moglie non parla, è molto afflitta e scoraggiata. «è molto dura», sussurra.

In chiesa, però, la gente è tornata come prima. Certo, ora ci sono cancelli, sbarre e guardie, che perquisiscono all’ingresso. Ma anche nella cattedrale di Jos, in un quartiere quasi disabitato, perché teatro di violentissimi scontri, la gente accorre numerosa e festosa per le celebrazioni. Mostrando non solo un grande coraggio, ma anche una straordinaria vitalità. Lo stesso mons. Kaigama è deciso più che mai a guardare avanti. Per questo ha creato a Jos un Centro per la pace. Un segno concreto di quella Nigeria multietnica e multireligiosa, pacifica e tollerante che qualcuno vorrebbe distruggere.

Fonte: Nigeria croce e speranza – MissiOnLine.org.

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