Nigeria: essere pastore – dossier

Da quando i Boko Haram hanno iniziato la loro campagna terroristica nel 2009, migliaia di cristiani degli stati del nord della Nigeria sono stati uccisi, chiese e case di credenti sono state distrutte, eppure vi sono fratelli che rimangono e pastori che decidono di rischiare la vita per essere luce e sale per questa terra. Un dossier che ci spiega la difficoltà di essere pastore in Nigeria del nord.

Da quando i Boko Haram hanno iniziato la loro campagna terroristica nel 2009, migliaia di cristiani degli stati del nord della Nigeria sono stati uccisi, un numero elevatissimo di chiese e di case di credenti sono state distrutte. Questi attacchi hanno ferito la società a vari livelli. Le chiese non possono più operare com’erano solite fare, molte famiglie hanno perso dei cari e moltissime vite sono state irrimediabilmente segnate durante questi 4 anni di violenze. Nel mezzo di questo caos ci sono coloro che sono stati chiamati a prendersi cura del gregge: i pastori. Loro e le loro famiglie sono tra i più colpiti.

Colpire i pastori è sempre stata una specifica strategia di questi terroristi, poiché sanno che ai pastori spetta il difficile compito di guidare le congregazioni attraverso il dolore della persecuzione, aiutando i membri di chiesa a trovare un senso alla sofferenza, il conforto nella perdita e le giuste reazioni (leggasi perdono) di fronte alla violenza. Ma tutto ciò lo fanno spesso dovendo affrontare in primis le proprie perdite e le proprie sofferenze.

Yobe, uno degli stati scenario dell’avanzata non solo dei Boko Haram ma anche dell’islam sociale più radicale, ha visto prendere forma un impressionante esodo di cristiani verso zone più sicure, con tutte le difficoltà e gli enormi problemi tipici di queste vaste migrazioni interne (pessime condizioni igieniche ed economiche, perdita di beni di proprietà, scarse prospettive per il futuro, ecc.). Per fare un esempio delle sfide che affrontano i pastori, una chiesa che la nostra missione conosce molto bene era solita avere una media di circa 600 membri, mentre oggi sono appena 50. Molte chiese più piccole di fronte agli ostacoli sociali, alla migrazione e alle minacce sono state costrette a chiudere: stimiamo che circa il 30% dei pastori di queste piccole congregazioni si sia spostato in un’altra zona, mentre il rimanente ha trasformato le congregazioni in cellule che si riuniscono in casa o all’aperto in zone sicure.

Molti pastori dunque rimangono nonostante gli immani sacrifici richiesti, magari mandando i figli in un altro stato più sicuro; purtroppo, però, le loro entrate sono sempre più esigue e ciò aggiunge la preoccupazione di non riuscire a mantenere se stessi e la propria famiglia lontana. A tal proposito Porte Aperte si è attivata portando viveri, vestiti e beni di prima necessità (visto che molti, oltre all’edificio e agli arredi della chiesa, hanno perso casa, vestiti, denaro, tutto), ma anche provvedendo a pagare le rette scolastiche dei figli e rimpiazzando il materiale di studio biblico perduto. L’idea è sempre quella di non lasciarli soli, anche e soprattutto perché hanno preso la difficile decisione di rimanere ad essere luce e sale per quella parte della Nigeria devastata dal fondamentalismo islamico.

Questo aiuto materiale è vitale per i pastori di Yobe e delle altre zone in cui siamo impegnati, ma ciò che continuano a chiederci di più sono le preghiere e la presenza, cioè dimostrare loro che siamo fisicamente al loro fianco, che possono chiamarci e noi rispondiamo, che possono sperare in una visita anche solo per dare loro conforto e incoraggiamento. Poterli guardare negli occhi e rassicurarli del fatto che moltissimi fratelli anche dall’Italia pregano per loro non ha davvero prezzo. La Chiesa in Nigeria è sotto attacco, spetta anche a noi difenderla.

Fonte: Nigeria: essere pastore – dossier.

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