No al terrorismo e al jihad. Ma io “non sono Charlie” | La Nuova Bussola Quotidiana

di Luigi Santambrogio09-01-2015

Je suis Charlie? Massì, ripetiamolo in coro quest’ultimo omaggio alla libertà assassinata, urliamo nelle piazze l’innocente e innocuo mantra che dovrebbe scacciare il diavolo islamista e i fantasmi della dittatura coranica. Ripetiamolo pure perché adesso si può, è lecito affermare che quei killer che hanno fatto fuori l’intera redazione del settimanale satirico, erano islamici autentici, con tanto di Allah Akbar nel distintivo sulle loro tute nere da militari del Califfo. Ridiciamolo in coro ora che anche la sinistra ha deciso che offendere Maometto non è più peccato, che coniugare terrorista con islam non comporta più reato di islamofobia e che vignettare sul Profeta gay o sulle vergini nude di Allah è segno di suprema libertà e di magistrale satira. Approfittiamo dell’occasione, della finestra aperta alla libertà di critica religiosa che la sinistra mediatica, intellettuale e culturale ci concedono, perché, c’è da scommetterci, non durerà a lungo.

Ci sono voluti dodici giornalisti morti, trucidati a colpi di kalashnikov, un massacro in stile iracheno o siriano nella Parigi libertaria, illuminista e rivegauchiste, perché, anche nella stampa più tollerante e illuminata, avvenisse il miracolo. Macabro e tragico, ma pur sempre miracolo, cioè fatto straordinario e inspiegabile con le normali leggi della politica e della ideologia. Dopo la strage di Parigi, condannare il jihad, la guerra santa islamica come barbarie ispirata dalla religione islamica è possibile. E dunque: Nous sommes tous Charlie.

Sì, siamo tutti quei giornalisti ammazzati, siamo tutti francesi, come com’eravamo, dopo l’11 settembre, tutti americani, e prima ancora tutti berlinesi ed ebrei e dopo ancora spagnoli, inglesi, russi, tibetani, cinesi, palestinesi, ucraini e dovremmo consultare mappamondo per ricordarci quello che non siamo stati. Ma oggi il cuore è con Georges Wolinski, Charb, Cabu e quei famosi vignettisti  dalla «vita irriverente trascorsa a celebrare l’amore e a mettere a nudo il potere, i suoi riti e i suoi inganni. Anche il potere del fanatismo, naturalmente, quello che Salman Rushdie chiama il “totalitarismo religioso”». Lo scrive Ezio Mauro, direttore di Repubblica, ma lo ripetono più o meno con le stesse parole i direttori e le migliori firme di tutti i giornali, dal Corriere della Sera al Manifesto, l’ultimo dei quotidiani comunisti rimasto al mondo. Forse perché, scrive, «il dissacrante Charlie Hebdo è nato a sinistra della sinistra». Come loro, appunto. Fino a Michele Serra che ci chiama alla “rivolta del lapis”: «Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria». Tutto giusto, tutto bello, tutto sacrosanto, anche la retorica all’ingrosso oggi è sopportabile, perché in gioco non c’è solo la satira ma la stessa libertà dell’Occidente. Pure questa evidente (cioè banalissima) verità è stata detta e scritta, e meno male.

Eppure, nella marea di sdegno e lacrime generali e bipartisan, qualcosa non va, c’è un che di falso e stordente, come se quel Je suis Charlie che viene ossessivamente proposto suonasse tanto attrattivo e convincente solo perché non ci riguarda. La strage islamica si è consumata a Parigi, ma poteva accadere anche a Roma o a Milano, oppure a Firenze o a Napoli. E allora, quel Je suis andrebbe tradotto con Io sono. Già, “io sono”, ma con chi? Beh, questo gli illustri direttori e le grandi firme non l’hanno scritto e forse neppure pensato. Ma se volete un suggerimento, potremno dire “Io sono con Oriana Fallaci”, oppure “Io sono con Magdi Cristiano Allam”, o anche (ma la cosa è di qualche anno fa) “Io sono con Theo Van Gogh” (il regista olandese assassinato da un terrorista islamico), e anche “Io sono con Kurt Westergaard”, il primo vignettista, nel 2005, a scatenare le reazioni del mondo musulmano per aver disegnato Maometto con una bomba nel turbante.  E per spostarci un po’ più in là dai confini europei, dovremmo essere tutti con Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia, con la sudanese Merian Ibrahim arrestata per apostasia, con i nazareni iracheni cacciati da Ninive, gli yazidi, i cristiani del Pakistan, le ragazze e i ragazzi nigeriani rapiti dagli islamici guerriglieri di Boko Haram che bruciano le scuole e i libri perché diabolici strumenti dell’Occidente.

La rabbia e l’orgoglio e la sua profezia sull’Eurabia, l’Europa sottomessa all’islam, costarono a Oriana Fallaci la segregazione per islamofobia lanciata dalla sinistra e dalla grande stampa nazionale. Accusata di fomentare l’odio religioso, pure dal suo stesso giornale, il Corriere della Sera, la Fallaci veniva quotidianamente sbertucciata come “sordida reazionaria”, “perniciosa guerrafondaia”, mortale portatrice di “Orianismo”. Quando la sua trilogia comparve in Italia, ricorda la stessa Oriana, «il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come “a provocateur” una “provocatrice”. Una villana colpevole di calunniare l’islam… Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio». Il quotidiano La Repubblica faceva da capofila alla schiera dei lanciatori di pietre, tutti col marchio della sinistra doc e liberal. Quando a Milano il sindaco Letizia Moratti propose di conferirle l’Ambrogino d’oro, ricorda la Fallaci, i consiglieri di sinistra minacciarono «di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: “Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush”». Ironia della cronaca: il settimanale Charlie Hebdo, a sorpresa,  ebbe il coraggio in quegli anni di schierarsi con la Fallaci.

Ma “Io sono” anche Magdi Cristiano Allam. L’ex vicedirettore del Corriere vive da anni blindato e sotto scorta, perché molti gruppi islamici gli hanno giurato di fargli la pelle. Eppure, anche lui è nella lista nera degli accusati e condannati a morte per il reato di abiura e blasfemia contro l’islam. A trascinarlo alla sbarra addirittura l’Ordine nazionale dei giornalisti, che l’ha sottoposto a provvedimento disciplinare per una serie di articoli pubblicati dal Giornale. Il processo si chiude con l’assoluzione, ma il fatto è che non doveva neppure aprirsi.  Le opinioni non si processano in democrazia e quella parodia simil-fascista contro Allam ha palesato una volta per tutte l’inutilità e la dannosità di quel tribunale di categoria. Anche nel processo, la grande stampa democratica si mise il bavaglio, finse di non vedere e di non sentire. Repubblica non pubblicò neppure una riga, i bravi opinionisti che oggi piangono (giustamente) e si allarmano per la libertà di stampa ferita a morte, tranne rare eccezioni fecero simpaticamente spallucce.

E se per sciagura, il povero Magdi si fosse beccato a fine processo anche qualche pistolettata da un musulmano offeso, non è peregrino sospettare che molti quotidiani avrebbero scritto che il convertito in fondo in fondo se l’era cercata. Insomma, ci avrebbero detto quello che oggi ha scritto il prestigioso Financial Times, giornale della City di Londra, che cioè «i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo si sono comportati stupidamente».  Perché non dovevano attaccare in quel modo offensivo l’islam e che «sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendo di sostenere la libertà quando invece provocano i musulmani». Insomma, dodici vignettisti sono morti per mancanza di buon senso, cioè: se la sono cercata.

D’accordo, il Financial Times è la voce della Borsa, è la Bibbia e insieme anche il Corano del capitalismo mondiale: comprensibile che ragioni in tal modo quando la maggioranza dei grandi gruppi economici e finanziari sono in mano araba: inutile e stupido andare a stuzzicare gli islamisti. Ma è anche piuttosto comprensibile perché la sinistra e i suoi giornali abbiano subito adottato quel Je suis Charlie, nonostante il suo alto grado di islamofobia. Ce lo spiega Michele Serra su Repubblica: «Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo (…) Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista».

Mais oui, adesso è un po’ più chiaro: a Charlie le religioni, tutte le religioni, non sono mai state simpatiche. Le considera l’origine d’ogni male di ogni violenza: per questo pigliava per i i fondelli Allah, ma anche il Papa, i Santi e la Chiesa cattolica. Dopo aver visto qualche vignetta dl settimanale, difficile andare in piazza con quei cartelli. Non c’è bisogno di essere feroci anticlericali per condannare la strage e gli assassini dei terroristi islamici. Non occorre bestemmiare Dio, raffigurare il Papa che amoreggia con un gay, o la Madonna a gambe aperte mentre partorisce Gesù Bambino o farsi quattro risate con lo Spirito Santo che sodomizza Gesù Crocifisso con tanto di buchi su mani e piedi che a sua volta possiede da dietro il Padre Eterno con la lingua di fuori. Questa era la satira di Charlie: le vignette contro l’islam non hanno mai avuto la stessa virulenza. Eppure, la bestemmia e il vilipendio non sono obbligati preamboli alla libertà di pensiero e di satira. E mica occorre essere cattolici per capire la  differenza tra una pratica autenticamente religiosa e il fanatismo di chi uccide in nome di chissà quale Dio.

Ma Charlie non faceva distinzioni, certo era islamofobo, ma con quelle credenziali anti cattoliche tutto gli era concesso. La sinistra era con lui alla crociata contro il «totalitarismo religioso», come ricorda Mauro citando Rushdie. A Oriana e Allam: troppo cristiani, troppo vicini al Papa, quel Ratzinger che a Ratisbona disse come stavano le cose con l’islam. Il vignettista Vauro, icona della satira comunista e no Vatican, ex giullare del Manifesto e di Santoro, dedica alla morte dei dodici giornalisti francesi una vignetta dove promette: «Rideremo ancora più forte». E noi aspettiamo pazientemente, anche se già sappiamo che c’è da morire di inedia prima che il coraggioso Vauro faccia qualche vignetta su Allah.  Ok, allora speriamo, come Voltaire, che Charlie torni a vivere, ma sia ben chiaro: noi non siamo Charlie.

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