Alla carcerazione a vita, il giudice distrettuale Rajendra Kumar Tosh ha aggiunto una multa equivalente a 120 euro per ciascuno dei condannati. Gli otto, secondo i giudici, sarebbero stati parte di un gruppo più numeroso che la notte del 23 agosto 2008 assalì l’ashram di Laxmanananda Saraswati, leader estremista indù con atteggiamenti da maestro spirituale, uccidendolo assieme a quattro suoi collaboratori. Gli omicidi, di cui da subito i guerriglieri maoisti si auto-accusarono, vennero addebitati ai cristiani della regione e utilizzati come pretesto per avviare, dal 25 agosto, una campagna – che i dibattimenti hanno indicato come «preordinata» – di persecuzione e di espulsione delle comunità di battezzati, quasi tutti di origine tribale o dalit (bassa casta o fuoricasta).
Il pubblico ministero aveva chiesto la pena di morte, dopo che – secondo l’accusa – 32 testimonianze e altre prove avrebbero dimostrato che gli otto hanno ucciso Saraswati e i suoi discepoli come ritorsione per la sua campagna di riconversione all’induismo dei cristiani locali.
Una decisione sconcertante, quella del giudice, intanto perché implica che a segnare la sorte di un gran numero di cristiani sarebbero stati loro correligionari, e in secondo luogo perché non tiene conto delle ripetute affermazioni di colpevolezza dei ribelli maoisti che avrebbero colpito Laxmananda Saraswati perché favoriva l’oppressione delle caste superiori e di vasti interessi economici sulla popolazione tribale e dalit in parte convertita a cristianesimo.
Immediata la reazione di monsignor Raphael Cheenath, l’ex arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar sotto la cui giurisdizione ricade il Kandhamal, che ha dichiarato: «Ci appelleremo all’Alta corte contro questo verdetto ingiusto e inaccettabile». «I maoisti – ha sottolineato il presule ad <+corsivo>AsiaNews<+tondo> – hanno rivendicato due volte la loro responsabilità per l’omicidio dello swami Laxamanananda e dei suoi quattro seguaci».
Contattato da AsiaNews, Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians, indica come i giudici «siano in combutta con le forze ultra-nazionaliste indù e di proposito hanno rimandato udienze e processi in modo regolare. Siamo tutti d’accordo che il principio fondamentale di una democrazia è dare uguale protezione e giustizia in base alla legge: nel nostro caso questi sette uomini non sono stati giudicati secondo tale principio».
Dopo la condanna in primo grado, sacerdoti e attivisti della società civile in Orissa hanno promosso una campagna per la giustizia e i vescovi indiani sostengono tali sforzi, come riferito all’agenzia Fides da padre Charles Irudayam, segretario della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica. «Prima di tutto – nota – vogliamo ribadire che i sette cristiani sono innocenti. Lo stesso tribunale che li ha condannati, il giorno dopo la sentenza ha condannato un leader maoista per il delitto di cui sono stati accusati: questo li scagiona definitivamente. La condanna – conclude padre Irudayam – è paradossale: in Orissa i cristiani sono tuttora vittime, non certo assassini, e molti di loro ancora attendono giustizia per le violenze subite».
Fonte: Orissa, carcere a vita a 7 cristiani innocenti | Mondo | www.avvenire.it.