Perché “no” al riconoscimento delle unioni di fatto

di Giuliano Guzzo

Sarebbe interessante un’analisi delle motivazioni per le quali, in Italia, il dibattito politico circa la possibilità d’introdurre un riconoscimento giuridico per le convivenze more uxorio torna ciclicamente di attualità. Soprattutto alla luce del fatto che, per rilanciare la necessità istituzionale di interventi in tal senso, si riprendono sempre argomenti noti e per lo più ampiamente confutati dall’esperienza. Riepiloghiamoli brevemente.

Il primo di questi concerne la presunta assenza di diritti in capo a coloro che convivono. Argomento falso, come conferma la stessa giurisprudenza, che ci ricorda – tanto per fare alcuni esempi – come sia già prevista, in taluni casi, perfino l’adozione a chi non è coniugato (e quindi ipoteticamente convivente) [1]; come sia concessa ai conviventi l’assegnazione di case popolari [2] e ad un convivente – se l’altro viene a mancare, e a condizione che entrambi avessero prima stipulato il contratto – la possibilità di subentrargli nel contratto d’affitto [3] nonché di visitarlo e assisterlo in carcere o all’ospedale [4]. Si aggiunga, poi, che attraverso la redazione di un testamento, è possibile – in luogo della successione legittima, assente tra i conviventi – che un convivente destini all’altro parte dei suoi beni.

Insomma, dire che in Italia i conviventi non abbiano alcun tipo di diritto non corrisponde al vero. Mentre è vero che manca una sorta di “riordino”, sotto forma di istituto, di questi diritti, ma detta assenza – a nostro avviso – ha una sua precisa ragione nella preferenza etica, prima che normativa, che si deve alla promozione dell’istituto matrimoniale. Prima di valutare le ragioni per cui è socialmente opportuno favorire il matrimonio, è bene ricordare che la grandissima parte dei conviventi sono tali «sia perché per separati e divorziati non è possibile celebrare un secondo matrimonio religioso, sia per una maggiore sfiducia in questo istituto da parte di chi ha vissuto il fallimento di un precedente istituto», senza dimenticare che «in un numero non trascurabile di casi la convivenza è soltanto una fase transitoria, vissuta in attesa della sentenza definitiva di divorzio che permetta la celebrazione di una nuova unione civile» [5]. Alto è anche il numero, tra le giovani coppie, di coloro che convivono in attesa di convolare a nozze. Appare dunque assai pretestuoso insistere sulla “necessità civile” di creare una sorta di istituto giuridico della convivenza. In tal senso, pare assai significativo, tra gli altri, il caso della città di Bologna, la cui Amministrazione comunale ha istituto un apposito registro delle coppie di fatto, rimasto – dopo oltre 12 anni – totalmente deserto [6].

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