«Prigionieri nell’inferno libico»

«Da giorni non vediamo la luce, soffriamo fame e sete. Siamo trattati come subumani». L’sms arriva alle sette del mattino direttamente dall’inferno, che è alle porte del grande deserto libico, nella regione meridionale del Fezzan. Lo manda Haile, nome di fantasia, eritreo giunto in Libia l’anno scorso e imprigionato a Sebha, uno dei famigerati centri di detenzione per migranti finanziati lo scorso decennio dall’Ue (compresa l’Italia). Il giovane è riuscito a conservare un cellulare, che è l’unica finestra sul mondo di un gruppo di profughi in un Paese che non riconosce ancora i rifugiati politici.

Haile fa parte di un gruppo di 130 eritrei catturati a Tripoli durante la “caccia al nero” scatenata a metà febbraio da militari e milizie del governo post rivoluzionario per «prevenire disordini» in vista del secondo anniversario dell’insurrezione contro il rais. Trasportati a Sebha, nel sud della Libia, da giorni rischiano di venire deportati nel Sahara e intanto vivono ammassati in uno stanzone sporco di 170 metri quadri. Tre di loro sono morti di stenti martedì scorso.

Alle spalle hanno storie di immigrazione e disperazione, molti vengono dal campo profughi di Shegarab, nel Sudan, dove chi non viene rapito dai nomadi Rashaida per venire rivenduto ai predoni beduini del Sinai, punta sulla Libia sulla vecchia rotta riattivata dai trafficanti di uomini che da Khartum attraversa il Sahara. Poi, una volta a Tripoli, si tenta la traversata verso Lampedusa.

«In tutto i sub sahariani in catene nel sud della Libia al momento sono 1200 – spiega don Mosè Zerai, cappellano della comunità eritrea in Svizzera e angelo custode dei migranti del Corno d’Africa nel Mediterraneo – e metà di questi avrebbero diritto a chiedere asilo in quanto eritrei, somali ed etiopi». Del caso se ne sta occupando l’Acnur che, nella caotica e violenta Tripoli post rivoluzionaria, ha aperto un ufficio e deve muoversi con cautela perché non è ancora stata riconosciuta dal governo. Il ministero dell’Interno libico avrebbe garantito all’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati che almeno la metà dei subasahariani detenuti, ovvero chi ha un tesserino da profugo dell’Acnur o ha titolo per richiederlo, non verrà rimpatriata a forza. Ma non ha concesso all’Acnur l’autorizzazione a visitare i dannati di Sebha. Le trattative sono in corso.

«Il rischio della deportazione nel deserto per me rimane ancora – prosegue don Zerai – come succedeva spesso prima dell’accordo italo-libico del 2009».

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