Quella sentenza sul matrimonio gay – [ Il Foglio.it › La giornata ]

New York. I casi sui quali la Corte suprema americana è chiamata a esprimersi oggi e domani non sono storici, come si dice in questi casi, soltanto perché riguardano una faccenda controversa che nel tempo ha guadagnato un consenso tale da diventare mainstream: il matrimonio gay. Sono storici perché possono ridefinire, una volta ancora, il rapporto fra opinione comune e legge, fra costumi e giurisprudenza, alterando l’equilibrio fra il potere federale e quello dei singoli stati secondo una dinamica simile a quella inaugurata dalla Roe vs. Wade, la sentenza del 1973 che ha legalizzato l’aborto in America. Allora un caso circoscritto al Texas si è trasformato, dopo il passaggio nelle mani dei giudici, in una gigantesca concessione federale. Persino Ruth Bader Ginsburg, la giudice ottantenne e pro choice che siede nella sponda liberal della Corte, in un discorso del 1992 ha criticato gli eccessi formali di una sentenza che s’è avventurata in un ambito che compete al potere legislativo. Chi ha votato e vergato l’opinione sull’aborto sentiva la pressione di una società trasformata dalla rivoluzione sessuale e dalle sue conseguenze, e una pressione analoga assale i giudici che oggi prendono in esame la Proposition 8 della California – la misura votata dai californiani che limita la validità del matrimonio all’unione fra uomo e donna – e domani affrontano il Defense of Marriage act (Doma), la legge passata nel 1996 con gran copia di voti democratici (quello dell’allora senatore Joe Biden, ad esempio) che indica il matrimonio eterosessuale come unica forma riconosciuta ai fini dei diritti federali delle coppie. Il Doma non impedisce ai singoli stati di legalizzare il matrimonio gay, cosa che hanno fatto a ritmo sostenuto negli ultimi 17 anni, né definisce il matrimonio in sé; più semplicemente limita l’estensione di alcune conseguenze federali alle sole coppie eterosessuali.

Secondo l’accusa, entrambi i casi violano una clausola del 14esimo emendamento per cui lo stato “non può negare ad alcuno nella sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi”. L’emendamento era stato introdotto nel 1868 per proteggere gli afroamericani appena liberati dalla schiavitù ma che ugualmente godevano di diritti limitati rispetto ai bianchi. Se, com’è probabile, la Corte accoglierà i ricorsi sui due casi, la condizione degli omosessuali verrà di fatto accostata a quella dei neri dopo l’abolizione della schiavitù e il diritto riconoscerà la categoria come bisognosa di una protezione speciale.

 

La disputa è cinta da una serie di contraddizioni concentriche che hanno a che fare con il cambiamento del paradigma culturale e l’evoluzione del diritto. I parlamentari che hanno votato il Doma nel 1996 non erano propalatori del diritto naturale o attivisti della destra più conservatrice. Erano legislatori che riconoscevano i limiti del potere federale. Ma con il passare del tempo e l’avanzare dei diritti gay a livello locale, Bill Clinton s’è pentito di aver firmato la legge e Barack Obama ha completato la sua “evoluzione” ideologica sul matrimonio. Da quando, nel 2011, il dipartimento di Giustizia ha riconosciuto il Doma come incostituzionale, i legali del governo non lo difendono più presso i tribunali e lo scontro fra visioni giuridiche in America si è ulteriormente radicalizzato. Nei corridoi della Corte suprema i giudici spargono indizi sulle loro opinioni. In un’intervista al New Yorker, Ginsburg ha detto che “apparteniamo alla tradizione della Common law. Come le leggi commerciali si sono evolute, così è cambiata l’idea del giusto processo e della ‘equal protection’”. Traduzione: il ruolo della Corte è quello di recepire e riflettere i cambiamenti culturali. Il contrario esatto di quello che il giudice conservatore Antonin Scalia intende quando dice che “la Costituzione è morta”. E se il cambiamento culturale sul matrimonio gay è sottolineato in modo potente nell’arena politica dai ripensamenti di tanti repubblicani – l’ultimo è il senatore Rob Portman – la Corte suprema è il terminale del processo. Il conservatore atipico Anthony Kennedy è diventato un “campione dei diritti dei gay” – come dice il costituzionalista Richard Fallon – e teme di finire “dalla parte sbagliata della storia”. Un timore simile è condiviso da un altro conservatore, John Roberts, il giudice che ha dato il voto decisivo per l’approvazione dell’Obamacare. Nessuno vuole prendersi il rischio di opporsi alla marea culturale. E per vedere il contrasto in atto basterà guardare in aula Theodore Olson e il suo discepolo Paul Clement, avvocati conservatori che difendono clienti opposti.

 

di Mattia Ferraresi   –   @mattiaferraresi

Fonte: Quella sentenza sul matrimonio gay – [ Il Foglio.it › La giornata ].

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