Riprendono le trasmissioni della radio cattolica Voce di Carità diretta da suor Elena Balatti. In Sud Sudan per dare speranza e stabilitàIl Sismografo

L’Osservatore Romano
Tornare dove tutto è stato distrutto dalla guerra, nella stessa casa da cui si è dovuti scappare a causa dei combattimenti. Farlo per stare al fianco della gente e di chi, lentamente, trova la forza di ricostruire. È quanto farà suor Elena Balatti, missionaria comboniana che a Malakal, in Sud Sudan, dirige la radio diocesana «Sout al Mahaba» (Voce di Carità). «La prima domenica di luglio — ha raccontato all’agenzia Sir suor Elena, attualmente in Italia — è stata celebrata la messa nella cattedrale con la presenza di circa 120 persone.
È stata la prima da quando il 18 febbraio scorso i ribelli hanno preso il controllo della città da cui noi suore siamo scappate grazie all’aiuto del pastore della Chiesa presbiteriana, rifugiandoci, insieme a migliaia di persone, nella base delle Nazioni Unite. Intanto la radio, la cattedrale e la nostra stessa casa venivano saccheggiate».
La città di Malakal, ora tornata sotto il controllo delle forze governative, è stata tra le più colpite dalla guerra che, dal dicembre scorso, vede fronteggiarsi l’esercito regolare, fedele al presidente Salva Kiir, e le truppe al comando dell’ex vicepresidente Rijek Machar. Una guerra che ha già provocato 1,5 milioni di sfollati.
«La nostra radio cattolica — ha spiegato la religiosa comboniana — è vista dalla gente come un segno di speranza e di stabilità, non solo in città, ma anche nei villaggi vicini. Dovremo valutare i danni, ma riuscire a ripartire sarà un primo passo di rinascita perché vorrebbe dire poter tornare a parlare di pace e riconciliazione». Secondo suor Elena, il mancato accordo tra i due contendenti pesa gravemente sulla popolazione costretta a vivere in condizioni di pericolo e di estrema povertà. «La mancanza di un accordo di pace significativo sta condannando la gente alla fame. Ho vissuto sei anni a Malakal e non ho mai visto la gente soffrire la fame. A Bentiu, nello Stato di Unity, i bambini iniziano a morire nei campi profughi a causa di malattie legate alla povertà dell’alimentazione. In quelle condizioni è sufficiente una malaria o una dissenteria per morire. Questi sono crimini che non possiamo tollerare».
A causa della grave crisi umanitaria del Paese più giovane del pianeta, in Sud Sudan muoiono una media di tre bambini al giorno, e uno su sette prima di compiere cinque anni. Dallo scoppio del conflitto a dicembre del 2013, 1,5 milioni di sudsudanesi hanno abbandonato le loro case. Di questi, quattrocentomila sono fuggiti in Uganda, in Etiopia e in Kenya. In assenza di un immediato incremento degli aiuti umanitari, potrebbero morire cinquantamila bambini a causa della malnutrizione. Attualmente, sono oltre sette milioni (due terzi della popolazione del Paese) le persone che vivono in uno stato di totale insicurezza alimentare. Solo il 40 per cento ha accesso ai servizi medici e il 32 per cento non dispone di acqua potabile. Nel mese di maggio nella capitale Juba si è verificata una epidemia di colera. L’allarme si è esteso già a nove Stati su dieci e i casi totali, il 2 luglio scorso, avevano superato i 2.600, con cinquantaquattro morti. I risultati del sondaggio condotto da Acción Contra el Hambre (Ach) a Leer, nello Stato di Unity, mostrano un tasso di denutrizione acuta del 34 per cento. La soglia di emergenza stabilita dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) è del 15 per cento.
Secondo suor Elena, lo scontro in corso in Sud Sudan è espressione di una contesa interna legata alla gestione del potere e dei benefici che ne derivano. «Ma è chiaro — conclude la missionaria comboniana — che dall’esterno si guarda con interesse a quanto sta avvenendo e non possiamo escludere che i leader abbiano fatto promesse a potenze esterne per ottenere sostegno: penso, ad esempio, ad accordi vantaggiosi per lo sfruttamento delle risorse sudsudanesi, molte delle quali ancora inesplorate». L’Osservatore Romano, 22 luglio 2014.

Fonte: Il Sismografo.

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