SCUOLA/ Douglas Al-Bazi (Iraq): veniamo torturati e uccisi, ma non smettiamo di educare

venerdì 15 maggio 2015 – Redazione

Un docente dell’Istituto scolastico “Don Gnocchi” di Carate Brianza (Monza) ha modo di ascoltare sulla BBC la testimonianza di padre Douglas Al-Bazi, sacerdote e rettore scolastico a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Nel frattempo il giornalista Luca Fiore aveva intervistato padre Douglas per l’ultimo numero di “Tracce”. Di qui nasce l’idea di contattare il sacerdote e di invitarlo a scuola per rispondere alle domande degli studenti e raccontare la propria storia. Ieri gli studenti hanno incontrato padre Douglas (video).

Nella sua parrocchia, a mezz’ora di auto dalle postazioni dell’Isis, si sono rifugiati centinaia di cristiani sfollati dai territori occupati dai terroristi. La sua scuola è frequentata da oltre 400 studenti provenienti da Iraq, Siria e Giordania. Di seguito, gli appunti della sua testimonianza, non rivisti dall’autore.

Io non “rappresento” il mio popolo: io “sono” il mio popolo, parlo come parte di esso, quindi non guardate a me come un eroe. Sono semplicemente un iracheno cristiano fiero di esserlo, che ama il suo paese.

L’Iraq ha seimila anni di civiltà, ma oggi non abbiamo cultura. Alcuni parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù. Nell’ultimo secolo, il mio popolo è stato attaccato otto volte, e quattro volte spinto a migrare (due all’interno dell’Iraq, due all’estero). Prima del 2003, molte persone pensavano che l’epoca di Saddam fosse un’epoca d’oro, ma in realtà durante quel periodo vi fu una guerra civile; se nasceva un bambino era proibito dargli un nome cristiano, erano consentiti solo nomi arabi e musulmani; nello spazio dedicato alla professione di fede sui documenti ufficiali si poteva indicare solo “musulmano” o “non musulmano”, senza ulteriori  specifiche. Tuttavia, si viveva insieme in pace. In Iraq ci sono molte religioni, musulmani (sunniti e no), cristiani (cattolici e no) e altri (yazidi, ma non solo), ma c’è anche molta violenza. Attenzione: il problema del mio paese non è il petrolio, che comunque è meno abbondante del sangue dei martiri. Il primo problema è piuttosto il conflitto interno all’islam, fra sciiti e sunniti. La seconda ragione della violenza riguarda lo scontro per acquisire il diritto a occupare la terra. Solo al terzo posto si pone il problema del petrolio, così abbondante da essere meno costoso dell’acqua.

Perché i cristiani sono attaccati in Iraq? Perché si tratta dell’ultimo gruppo educato in quel territorio. L’ultimo gruppo capace di distinguere tra il bene e il male. L’ultimo gruppo in grado di dire al governo: “Stai sbagliando”. L’ultimo gruppo che è in sé stesso una finestra sul mondo, in grado di far entrare il mondo in Iraq. Per questa ragione hanno attaccato gli ebrei, cinquant’anni fa; ora è il turno dei cristiani.

Nel 2005 è cominciata la prima guerra civile tra sciiti e sunniti. Quando questo accadde, noi cristiani ci siamo trovati nel mezzo, così come eravamo nel mezzo dello scontro tra curdi e governo centrale. Nel 2006 Benedetto XVI svolse il suo discorso a Ratisbona, cui i musulmani reagirono: fummo noi a farne le spese. Il giorno dopo quel discorso ho trovato davanti alla mia chiesa di Baghdad un pacco di plastica; insieme a un ragazzo mi accostai a non più di sette metri di distanza e mi ritrovai sbalzato di trenta metri indietro per l’esplosione della bomba. Sembrava un action movie: ciascuno chiedeva urlando all’altro se stava bene, ma non potevamo ascoltarci, avevamo perso l’udito in quel momento. Sono stato poi colpito da un colpo di Kalashnikov alla gamba: quando me ne resi conto pensai che il soldato non era stato bravo, dato che mi aveva mancato.

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