Se Erdogan vellica l’orgoglio ottomano

​L’uomo è un abile giocatore, capace dell’elegante dissimulazione del Gran Visir e insieme della fredda ferocia (politica) di Solimano. Dunque non prendiamo alla lettera la minaccia rivolta qualche giorno fa all’Unione Europea, ma nemmeno derubrichiamola a una spacconata venata di nostalgia neo-ottomana.

Perché tutto possiamo di dire di Tayyp Erdogan tranne che ami scherzare. Infatti, interpretando quel diffuso malcontento molto prossimo all’umiliazione nazionale per aver lasciato la Turchia fuori dalle mura d’Europa con il cappello in mano dall’ormai lontano 1999, Erdogan ammonisce: «La Ue vorrebbe dimenticarsi di noi, ma è ancora incerta, non riesce a decidersi. Invece di farci perdere il nostro tempo dovrebbe essere aperta e spiegarsi, così noi potremmo portare avanti i nostri affari. Per questo ho detto al presidente Putin: “Prendici nel Gruppo di Shangai, e noi diremo addio alla Ue”».

Una provocazione, certo, considerato che lo Sco – un’organizzazione di cooperazione intergovernativa fra Russia, Cina, Kazakstan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirgizstan, una sorta di Consiglio d’Europa euroasiatico – non ha e non offre le possibilità di integrazione che potrebbe garantire l’Unione Europea, visto che su un totale di 375 miliardi di dollari il valore dell’interscambio con i Paesi europei nel 2011 è stato di ben 153 miliardi (i primi due partner sono Germania e Italia, seguite da Regno Unito e Francia) e pure il trend del 2012 si mantiene dello stesso tenore. Ma è vero anche che Erdogan non cessa di esplorare vie alternative al disegno di espansione della Turchia come potenza non solo regionale, ma come <+corsivo>player<+tondo> internazionale in grado di parlare da pari a pari con le grandi nazioni emergenti, il Brasile, l’Indonesia, il Messico, il Sudafrica.

Le cifre gli danno ragione. Il Pil è in costante crescita dal 2002 (nel 2010 raggiungeva l’8,9% e l’8,5% nel 2011), a fronte di un’inflazione che sfiorava nel 2012 il 9,8% e di un tasso di disoccupazione che solo da poco è sceso sotto il 10%. Il Pil pro capite nel 2012 ha raggiunto i 12.300 dollari, quota non eccelsa (Cipro, per dare un termine di paragone, è a 21 mila dollari, l’Italia a 30 mila) ma in crescita costante. A dare benzina ai sogni di grandezza di Tayyip Erdogan sono – in mancanza di quel riconoscimento politico internazionale che la rottura con Israele, le “primavere arabe” e la crisi siriana finora non gli hanno procurato – i dati macroeconomici: dal 2002 al 2011 l’export è aumentato del 274%, l’interscambio commerciale del 329%, le importazioni del 367% con un debito pubblico che raggiunge solo il 40% del Pil. Cifre da potenza in ascesa, con ambizioni conseguenti.

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