SIRIA/ Il Cairo e Damasco, le due città che Obama non capisce

Souad Sbai

Non è affatto piacevole dirlo, ma lo avevamo sostenuto ed affermato da tempo: quella del 2011 non poteva essere definita come “primavera araba”. In pochi avevamo percepito la pericolosità dei Fratelli musulmani, comprendendo che avremmo avuto a che fare con l’estremismo radicale. In alcune trasmissioni televisive, anche di un certo spessore, siamo stati derisi quando li abbiamo considerati alla stregua dei terroristi. Fa male dirlo, ma è utile ricordarlo a chi ha la memoria corta.

L’Egitto, afflitto dagli scontri che hanno provocato numerosi morti, ha accolto un cavallo di Troia, uno stratagemma che ha permesso alla Fratellanza di penetrare attraverso le barriere del paese. L’ex presidente Morsi ha intenzionalmente affidato ad alcuni uomini dei Fratelli musulmani incarichi istituzionali e di governo per permettergli di espandersi in tutto il paese e non solo. Con il beneplacito di Europa e Stati Uniti che si aspettavano potessero migliorare la situazione sociale ed economica, quest’ultima al collasso dopo le proteste di piazza Tahrir, e modificare la proprio indole per il bene comune.

Così non è stato. La Fratellanza ha un substrato colmo di estremisti radicali senza scrupoli e pronti ad uccidere. Quale dimostrazione migliore della presenza del fratello di Mohammed al Zawahiri tra coloro che sparavano contro la polizia dalla moschea di Al Fatah. I Fratelli musulmani non hanno la minima intenzione di migliorare l’Egitto, al contrario, vogliono portarlo ad una sorta di Medioevo tramite l’imposizione di precetti antiquati di dubbia derivazione. Quella egiziana, tuttavia, è una nazione con una forte élite pensante, colta ed intellettuale, sostenuta sempre dal popolo e dai militari che li ha fatti cadere prima del tempo.

Ma in queste ore lo sguardo sull’Egitto, al centro del dibattito internazionale, si è spostato bruscamente sulla Siria. Il paese governato da Assad, che sta combattendo apertamente contro il fondamentalismo già da due anni, attende, tra scetticismo e fatalismo, l’inizio di eventuali attacchi da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Per le strade di Damasco la vita va avanti, e nulla lascia presagire ad un intervento occidentale. Il popolo siriano è scettico circa la possibilità di un intervento militare straniero, in quanto da più parti si ipotizza che ad utilizzare le armi chimiche siano stati i ribelli, sia perché sarebbe un azzardo per gli Stati Uniti ripetere quanto accaduto per la questione irachena.

Dall’altra parte il presidente Obama ha detto di non aver ancora deciso su un possibile intervento, nonostante la convinzione di Washington che il regime di Assad sia responsabile dell’attacco chimico del 21 agosto.

Da parte sua anche Londra ha fatto un passo indietro, e attende che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esamini le valutazioni dei propri ispettori. La Russia, che ha sempre temuto l’armamento e i ribelli in Siria, di cui una gran parte sono controllati dal comandante Amrof, leader dei combattenti ceceni sul territorio, sa che il conflitto in Siria può portare al ritorno delle frange islamiche e cecene intente a combattere l’esercito russo per l’indipendenza del Caucaso del nord.

Con uno scenario simile è un bene che l’Italia rimanga cauta. Il governo siriano non ha alcun interesse ad uccidere il suo popolo, al contrario. La verità è che si sta difendendo dagli attacchi di frange esterne, uomini della componente jihadista sostenuta dai paesi dei petroldollari. E sostenerli sarebbe un errore madornale. Una Siria governata da jihadisti e integralisti islamici, provocherebbe la fine della civiltà proprio nel cuore del Medio Oriente.

Fonte: SIRIA/ Il Cairo e Damasco, le due città che Obama non capisce.

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