Siria: le bombe, i rapimenti dei cristiani, le chiese attaccate « Libertà e Persona

di Rodolfo Casadei

Reportage da Damasco. Rania ha solo 21 anni, ma come tutti gli abitanti di Damasco è già scesa a patti con la morte: «Continueremo a vivere come abbiamo sempre fatto, e se dobbiamo morire moriremo. Un ragazzo di cui ero amica da cinque anni è andato a combattere coi ribelli ed è stato ucciso. Non ho provato alcun dispiacere: il governo ci permette di frequentare l’università gratuitamente, che diritto abbiamo di ribellarci?», dice questa brillante studentessa di ingegneria, prima ragazza del suo corso. Parole raccolte il giorno dei funesti attentati di Mazraa e Barzeh, dove due autobombe hanno stroncato la vita di 52 persone, fra loro molti studenti di una scuola media, e una terza che doveva sopraggiungere sulla folla attirata dalla precedente esplosione miracolosamente non è deflagrata perché il conducente è rimasto ferito nella manovra di avvicinamento senza poter innescare la sua bomba.

GUERRA SENZA FINE. Gli studenti si passano i cellulari mormorando: dopo poco più di un’ora le immagini dell’attacco riprese coi telefonini erano su Facebook e da lì è subito cominciato il travaso su centinaia di cellulari. «La guerra non durerà un altro inverno, o vinceremo noi o vinceranno loro», conclude sicura Rania. Niente è meno probabile di questo. Più che a una resa dei conti fra due fronti avversari, a due anni dall’inizio della crisi e dopo venti mesi di lotta armata, la Siria sembra avviata al puro e semplice suicidio. L’intero paese, con la sola eccezione dei due porti settentrionali di Tartus e Latakia, è un campo di battaglia dove si affrontano ben 140 mila ribelli, un quarto e forse più dei quali di origine straniera, e 500 mila uomini delle forze armate e delle milizie civili filogovernative. In alcune località gli scontri sono sporadici, un incrociarsi di blitz e agguati, in altri, come la sfinita Aleppo, ridotta per metà in macerie da sette mesi di assedio delle formazioni del Libero esercito siriano e soprattutto delle milizie salafite contrastato con attacchi missilistici da parte del governo, pare di assistere a una nuova battaglia di Stalingrado senza risparmio di uomini e mezzi.

ALMENO 100 MORTI AL GIORNO. Si parla di 60-70 mila morti dall’inizio della crisi, ma di questi almeno 50 mila sono caduti negli ultimi nove mesi, quando l’afflusso di combattenti salafiti si è fatto massiccio (oltre alla tristemente famosa Jasbat Nusra, legata ad Al Qaeda, c’è un’altra decina di sigle) e l’opzione militarista del regime è diventata definitiva. Da allora nessuna giornata si è mai conclusa con meno di 100 caduti e più spesso 200, sempre in maggioranza civili. Chi arriva in auto dal Libano, dal valico di Masnaa, sa che la capitale siriana appare all’improvviso giù in basso, tutta intera, dopo una mezz’ora di tornanti in lieve discesa. Dall’inizio di febbraio, la Damasco che si squaderna alla vista dopo sei posti di blocco dell’esercito toglie il respiro: spesse colonne di fumo grigio o nero si alzano dalle periferie, dense nuvole innaturali si raccolgono sul borgo di Daraya.

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