Un primo approccio alla Lumen fidei

L’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo. Un’Enciclica per l’esercizio quotidiano della fede che “illumina tutta l’esistenza” e non soltanto alcuni brandelli. Non è un “culto nel vuoto spinto da un sentimento cieco”, né “una consolazione privata” e neppure “un rifugio per gente senza coraggio”, capace, con la sua ragionevolezza e il suo amore, di “costruire una nuova solidità” anche oggi nel dramma antropologico.

Pur con una grande densità teologica per la nuova evangelizzazione essa pastoralmente mira a un dono che già in qualche modo si possiede; l’esercizio della fede presuppone la consapevolezza di un fondamento già dato. Ma solo con la consapevolezza ed esercitandomi ogni giorno la qualità della vita di fede diventa mia propria fino al punto da poterne disporre e da renderla antropologicamente e missionariamente fruttuosa. Un pianista deve esercitarsi nella sua arte, altrimenti la perde. Uno spirito sportivo deve “allenarsi” perché solo così egli sarà in piena forma. Dopo la rottura di una gamba devo nuovamente esercitare l’organo in via di guarigione, perché impari di nuovo a sostenermi e via dicendo. La nuova evangelizzazione è soprattutto per paesi, per persone già battezzate, per ambienti un tempo anche culturalmente cristiani e che hanno bisogno di esercitarsi cristianamente. E poiché l’esistenza cristiana, dopo secoli di ideologie alternative e disastrose, non è una qualche arte specifica accanto a tante altre, bensì semplicemente l’esistenza umana vissuta come si deve, l’enciclica presenta l’arte della vita giusta, rende possibile l’arte delle arti, l’esistenza umana.
Lo fa presentando subito uno sguardo sul panorama della nostra vita quotidiana, com’è accentuata la modalità pastorale di Papa Francesco. Esiste nella nostra società contemporanea soprattutto occidentale e nei paesi cui si rifanno un sistema altamente sviluppato di formazione professionale che ha portato al massimo livello le possibilità di dominio umano sulle cose. Il potere dell’uomo, nel senso del dominio del mondo, è giunto a proporzioni quasi vertiginose. Nel “fare” siamo diventati grandi, anzi grandissimi, ma nell’“essere, nell’arte di esistere le cose stanno diversamente perché con la radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. In questa nuova ondata di illuminismo e laicismo avviene un autentico capovolgimento post- moderno del punto di partenza di questa cultura moderna scientifica e tecnica, che era una rivendicazione della centralità di ogni uomo e della sua libertà. L’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Sappiamo che cosa si può “fare” delle cose e degli uomini, ma di ciò che sono, di ciò che ogni uomo “è come dono del Donatore divino” non se ne parla più. Ma questa cultura tecno scientifica è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di fede, di speranza, di amore. “Queste considerazioni – Lumen fidei, n. 7 – sulla fede – in continuità con tutto quello che il magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale – intendo aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”.
La fede è l’Atto fondamentale dell’esistenza cristiana. Nell’atto di fede, nel cammino di fede si esprime la struttura essenziale del cristianesimo, la sua risposta alla domanda come è possibile arrivare alla méta nell’arte dell’esistenza cristiana. Si danno anche altre risposte. Non tutte le religioni sono “fede”. Il buddismo nella sua forma classica, per esempio, non mira a questo atto di auto trascendenza, di incontro con il Donatore divino del proprio e altrui essere dono, come di tutto il mondo che mi circonda: il Dio vivente che mi parla e mi invita ad amare con il suo amore. Caratteristico del buddismo è invece un atto di radicale interiorizzazione: non uscire da sé ma discendere dentro, il che deve condurre alla liberazione dal giogo dell’individualità, dal peso di essere persona; al ritorno nell’identità comune di ogni essere. E ciò, in confronto con la nostra esperienza esistenziale, si può definire come non essere, come nulla, se vogliamo esprimere tutta la sua alterità. Ma anche l’opposto radicale di erigere nella prassi la libertà individuale a valore fondamentale rende difficile la fede. Analogo discorso di chi esistenzialmente fonda la coscienza sull’autocoscienza, soggettivamente sul sapere del sapere.
L’Enciclica Lumen fidei punta pastoralmente e far imparare meglio l’atto fondamentale dell’esistenza cristiana, l’atto della fede. E l’Enciclica aiuta ad affrontare quelle intime rotture, che bloccano il nostro movimento nel campo della fede: la fede è un atteggiamento, in privato e in pubblico, degno di un uomo moderno e maturo? “Credere” ci appare come qualcosa di provvisorio, di transeunte, da cui si vorrebbe propriamente uscire, anche se spesso – appunto come atteggiamento transeunte – è inevitabile: nessuno può realmente sapere e dominare col proprio sapere tutto ciò su cui si fonda la nostra vita in una civiltà tecnica. Moltissime cose – la maggior parte – noi dobbiamo accettarle con fiducia nella “scienza”, tanto più che questa fiducia appare sufficientemente confermata anche per il singolo da un’esperienza comune. Tutti noi usiamo dalla mattina alla sera prodotti della tecnica, i cui fondamenti scientifici si sono ignoti: la statica del grattacielo chi può calcolarla e accertarsene? Il funzionamento dell’ascensore? Tutto il campo dell’elettricità e dell’elettronica di cui ci serviamo? Oppure (ciò che è ancora più grave) l’affidabilità della composizione di una medicina? Si potrebbe continuare. Noi viviamo di una rete di non conoscenze, delle quali ci fidiamo a causa delle esperienze generalmente positive. Noi “crediamo” che tutto ciò sia giusto ed abbiamo con questa “fede” parte al prodotto del sapere altrui. Che specie di fede è ora questa che pratichiamo di solito inconsapevolmente, che anzi è il fondamento della nostra giornaliera vita comune? Due opposti aspetti di questa specie di “fede” saltano agli occhi:
in primo luogo possiamo stabilire che una simile fede è indispensabile per la nostra vita. Ciò vale anzitutto semplicemente perché nulla più funzionerebbe; ognuno dovrebbe ricominciare da principio. Ciò vale in profondità anche nel senso che una vita umana diventa impossibile se non si può aver fiducia dell’altro e degli altri, se non ci si può affidare alla loro esperienza, alla loro conoscenza, a quello che viene presentato. La fede nella vita quotidiana è un atteggiamento fondamentale dell’uomo. Questo è uno dei lati di questa fede, quello positivo.
D’altra parte essa è naturalmente espressione di ignoranza e, in questo senso, un atteggiamento secondario: sapere sarebbe meglio. I molti possono affidarsi a tutto il meccanismo di un mondo tecnico soltanto perché alcuni hanno studiato un settore particolare e lo conoscono. In questo senso c’è il, desiderio di passare, per quanto è possibile, dalla fede al sapere, in ogni caso in questo campo, a un sapere giusto e significativo.
Nonostante siamo ancora lontani dalla zone della religione e ci muoviamo nello spazio del dominio della vita puramente intra mondano, quotidiano, abbiamo però guadagnato intuizioni importanti anche per il fenomeno della fede religiosa e che quindi vogliamo ancora espressamente precisare. Nel quadro della “fede di ogni giorno” si devono distinguere due aspetti:
– vi appartiene anzitutto il carattere dell’insufficiente, del provvisorio; essa è uno stadio puramente incipiente del sapere dal quale ci cerca di uscire se possibile.
– Una simile “fede” è fiducia reciproca, partecipazione comune alla comprensione e al dominio di questo mondo; questo aspetto è in genere essenziale per la formazione della vita umana. Una società senza fiducia non può vivere. Le parole pronunciate da Tommaso d’Aquino: l’incredulità è essenzialmente contraria alla natura dell’uomo. Così noi vediamo che i diversi piani non sono del tutto senza rapporto.
Una simile fede è un valore certamente minore rispetto al “sapere”, ma fondamentale per l’esistenza umana, un valore senza cui nessuna società può sussistere. In più possiamo ora elencare anche i singoli elementi che appartengono a questa fede (la struttura del suo atto). Essi sono tre:
– questa fede si riferisce sempre a qualcuno che “sa”: presuppone la reale cognizione di persone qualificate e degne di fede.
la fiducia di “molti” che nel quotidiano uso delle cose si basano sulla solidità del sapere che sta dietro.
Una certa verifica nella propria coscienza del sapere di fede nell’esperienza di ogni giorno.
La Parola di Dio arriva a noi mediante uomini che l’hanno udita e attinta; mediante uomini per i quali Dio è diventato un’esperienza concreta e che, per così dire, la conoscono di prima mano. Per comprendere questo dobbiamo riflettere sulla struttura del conoscere e del credere elaborata. Della fede fa parte da un lato l’aspetto del sapere non autosufficiente, ma anche dall’altro l’elemento della fiducia reciproca, mediante cui il sapere dell’altro diventa il mio sapere. L’elemento della fiducia comporta in sé il fattore della partecipazione: con la mia fiducia io divento partecipe del sapere altrui. In ciò sta per così dire l’aspetto sociale del fenomeno fede. Nessuno sa tutto, ma insieme sappiamo il necessario; la fede forma una rete di reciproca dipendenza, di persone che si sostengono e vengono sostenute. Questa struttura antropologica di fondo ritorna nel nostro rapporto con Dio, anzi essa ha qui la sua forma primordiale e il suo centro che unifica. Anche la nostra conoscenza di Dio si fonda su questa reciprocità, su una fiducia che diventa partecipazione e che poi si verifica per il singolo nell’esperienza personalmente verificata e vissuta. Anche il rapporto con Dio è a un tempo e anzitutto relazione umana; si fonda su una comunione degli uomini, anzi la comunione della relazione con Dio trasmette per principio la più profonda possibilità di comunicare umano, che al di là dell’utilità raggiunge il fondo dell’io, dell’anima, del cuore cioè della persona stessa.
Veramente, affinché io possa ricevere come mio questo sapere dell’altro nella comunione e possa provarlo nella mia propria vita, devo io stesso essere aperto a Dio conforme al senso religioso originario, all’apertura alla realtà in tutti i fattori cioè alla verità in ogni io umano. Solo se in me stesso c’è un organo di recezione, il suo dell’Eterno può arrivare a me attraverso altri. In questo senso il con -sapere circa Dio mediante altri è più personale del con -sapere con il tecnico, con lo specialista. La conoscenza di Dio postula interna vigilanza, apertura alla realtà in tutti gli ambiti cioè alla verità senza idolatrare qualcuno degli ambiti e senza escluderne. E quindi interiorizzazione, cuore aperto, puro, che si rende personalmente consapevole in silenzioso raccoglimento della sua immediatezza del proprio e altrui essere dono del Donatore divino cioè con il Creatore. Ma al tempo stesso è vero che Dio non si apre all’io isolato, esclude la chiusura individualistica cioè chi fa nella prassi della libertà individuale valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso per questa cultura dalla vita pubblica e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenire superfluo ed estraneo. Il rapporto personale con Dio è legato al rapporto alla realtà in tutti gli ambiti, alla comunione con i nostri fratelli e sorelle.
A questo punto si apre un varco inaspettato. La “fede naturale” per la quale ci fidiamo di risultati che noi stessi non possiamo esaminare, trova la sua giustificazione nel sapere di singole persone che conoscono la materia e hanno sperimentato. Simile fede rimane per il singolo fede, ma si richiama a un vedere che l’altro possiede. Nel primo incontro con la questione religiosa ci sembrò che precisamente quest’elemento decisivo manca nella fede religiosa, soprannaturale: qui sembra che non ci sia colui che vede, ma tutti sembrano essere unicamente credenti, e questo ci apparve come il punto problematico nella fede religiosa. Ma ora dobbiamo dire che le cose non stanno così. Anche nella fede soprannaturale i molti vivono dei pochi e i pochi per i molti. Anche nel campo di Dio non siamo tutti ciechi che brancolano nel buio. Anche qui ci sono persone a cui è stato donato il vedere: “Abramo…vide il mio girono e si rallegrò” dice Cristo sull’antenato d’Israele (Gv 8,56). Nel mezzo della storia Egli, Dio che possiede un volto umano, sta come il grande veggente, e tutte le sue parole, le sue azioni sgorgano da questa immediatezza con il Padre. E vale per noi tutti: “Chi vede me (anche attraverso la memorizzazione evangelica dei fatti e detti del momento terreno di Gesù) ha visto il Padre” (Gv 14,9). La risurrezione di Cristo e quindi la sua presenza nella sacra mentalità della Chiesa per cui tutti, in ogni luogo e in ogni tempo, lo possono incontrare e far accadere la fede con il nuovo orizzonte di vita è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni, hanno visto e non certo creatori con la loro fede. Hanno visto che non si è trattato di un semplice ritorno alla nostra vita terrena ma della più grande “mutazione” mai accaduta, del “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso che riguarda Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo. E questo annuncio è la risposta alle domande fondamentali su chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, c’è una liberazione dal male, un al di là anche della carne, del corpo.
La fede cristiana è, nella sua essenza sia partecipazione alla visione di Gesù, mediata dalla sua parola che è l’espressione autentica della sua visione e sia del vedere il risorto, delle apparizioni agli Apostoli, punto di riferimento della nostra fede, il suo concreto e continuo ancoraggio nella continuità o Tradizione.
Di qui
l’ancoraggio della fede nella visione di Gesù, nel vedere il Risorto da parte degli Apostoli e nell’esperienza ecclesiale dei Santi
la verifica della fede oggettiva nella vita soggettiva
Gesù, che conosce Dio di prima mano e lo vede, è perciò il mediatore tra Dio e ogni uomo. La sua visione umana della realtà divina è la sorgente della Luce per tutti, lumen fidei. Ma anche Gesù non si può considerare isolato, non può venir sospinto in un lontano passato storico. Abbiamo già parlato di Abramo per cui tutto l’Antico testamento va letto alla luce di Cristo e Cristo alla luce dell’Antico testamento nella continuità dinamica della Tradizione cattolica; ora dobbiamo aggiungere: la luce di Gesù Cristo, del Risorto si riflette sacramentalmente nei santi e irradia continuamente, di nuovo nei santi e irradia di nuovo da essi. Ma “santi” non sono soltanto le persone propriamente canonizzate. Sempre vivono santi nascosti, che in comunione con Gesù presente nella sacra mentalità della Chiesa, che in comunione con Gesù ricevono un raggio del suo splendore, un’esperienza concreta e reale di Dio. Forse, per maggior precisione, possiamo riprendere una strana espressione che il vecchio Testamento usa in relazione con la storia di Mosè: se i santi non possono vedere pienamente Dio in faccia, tuttavia sacramentalmente essi vedono Dio, lo vedono almeno “alle sue spalle” (Es 33,23). E come la faccia di Mosè brillava dopo questo incontro con Dio, così irradia la luce di Gesù dalla vita di uomini simili.
San Tommaso d’Aquino da questo stato di cose ha sviluppato addirittura il carattere di scienza della fede della teologia. Egli ricorda che (secondo Aristotele) tutte le scienze sono riferite l’una all’altra in un sistema di reciproca fondazione e dipendenza. Nessuna fonda e riflette la totalità, ognuna presuppone in qualche modo fondazioni anteriori da un’altra scienza. Solo una scienza – secondo Aristotele va fino al fondamento vero e proprio di ogni umana conoscenza; perciò egli la chiama “filosofia prima”. Tutte le altre presuppongono questa riflessione di base e sono quindi scienze subalterne costituite su un’altra o più altre. Anche la teologia è in questo senso “scienza subalterna”, perché è essa a “vedere” o “dimostrare” i suoi ultimi fondamenti. Essa è, per così dire, appesa al “sapere dei santi, dei piccoli”, alla loro visione. Questa visione è il punto di riferimento del pensiero teologico, punto che garantisce la sua giustezza. Il lavoro dei teologi è in questo senso sempre “secondario”, relativo all’esperienza reale dei santi, dei piccoli come Santa Teresa. Senza questo punto di riferimento, senza questo intimo ancoraggio in simili esperienze perde il suo carattere di realtà. Questa è l’umiltà richiesta ai teologi…La teologia diventa un puro gioco intellettuale e perde anche il suo carattere di scienza senza il realismo dei santi, dei piccoli, senza il loro contatto con la realtà che qui è in questione.
Se noi ci fidiamo della visione diretta di Gesù e crediamo alla sua parola, non ci troviamo affatto in piena oscurità. Il messaggio oggettivo di Gesù risponde a un’intima attesa di ogni cuore umano puro; corrisponde a un’interna luce del nostro essere, di ogni io che mira, che ricerca la verità, il bene, Dio e su questa strada il Dio che possiede un volto umano che ci ha amato sino alla fine, l’umanità e ogni persona. Certo è che a tutta prima noi siamo dei credenti di “seconda mano”. Ma san Tommaso d’Aquino caratterizza giustamente la fede come un processo, una strada interiore quando dice: “La luce della fede ci conduce alla visione”. Giovanni allude più volte nel suo vangelo, per esempio, nella storia di Gesù con la samaritana, a questo processo. La donna racconta ciò che le è successo con Gesù e come ha riconosciuto in Lui il Messia, il Salvatore che apre la via a Dio e di conseguenza introduce alla sua conoscenza che dà la vita. Che proprio questa donna dica tutto questo rende attenti i suoi concittadini; credono a Gesù “ a causa della donna”, credono di seconda mano. Ma proprio per questo essi invitano Gesù a rimanere con loro e vengono a parlare direttamente con Lui, il Dio vivente nella via umana. Alla fine essi possono dire alla donna: noi non crediamo più a causa delle tue parole, ma ora sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo (Gv 4,42), lo vediamo. Nell’incontro vivo la fede è diventata conoscenza, “sapere” di prima mano.
A dire il vero, sarebbe un’illusione se ci si rappresentasse la via della fede semplicemente come un cammino rettilineo di progresso nella continuità. Siccome essa è legata strettamente alla nostra vita, con tutti i suoi alti e bassi, ci sono sempre dei passi indietro che obbligano a riforme, a nuovi inizi sia pure nella continuità dinamica o Tradizione. Ogni stagione della vita deve trovare la sua maturità, pena una ricaduta nella immaturità corrispondente. Tuttavia possiamo dire ugualmente che nella vita della fede cresce anche una certa evidenza di questa fede. La sua realtà ci tocca, e l’esperienza di una vita vissuta nella fede ci assicura che di fatto Gesù è sacramentalmente presente nella sua Chiesa ieri, oggi e sempre, è il Salvatore del mondo.
A questo punto il secondo aspetto di cui dicevamo si congiunge con il primo. Nel Nuovo testamento la parola “santo” indicava i cristiani in genere, i quali anche allora non avevano tutte le qualità che si esigono da un santo canonizzato. Ma con questa denominazione si voleva dire che erano tutti chiamati, per la loro esperienza sacramentale del Signore risorto, ad essere per gli altri un punto di riferimento, che li poteva mettere in contatto con la visione del Dio vivente propria di Gesù. Ciò vale anche oggi. Un credente, che si lascia formare e condurre nella fede della Chiesa, dovrebbe essere, con tutte le sue debolezze e difficoltà, una finestra per la luce del Dio vivente, del Dio con noi e tra noi, e se crede veramente lo è di fatto. Contro le forze che soffocano la verità, contro questo muro di pregiudizi che blocca in noi lo sguardo su Dio, il credente dovrebbe essere una forza antagonista. Una fede ancora appena agli inizi dovrebbe potersi appoggiare su di Lui. Come la samaritana divenne un invito a Gesù nonostante la sua situazione morale, così la fede dei credenti è per essenza un punto di riferimento nella ricerca di Dio nell’oscurità di un mondo divenuto largamente ostile a Dio.
In questo contesto è interessante ricordare che la Chiesa antica dopo la fine del tempo apostolico sviluppò come chiesa un’attività missionaria relativamente ridotta, non aveva alcuna strategia propria per lì’annuncio della fede ai pagani e che ciononostante il suo tempo divenne un periodo di grande successo missionario. La conversione del mondo antico al cristianesimo non fu il risultato di un’attività pianificata, ma il frutto della prova della fede nel modo come si rendeva visibile nella vita dei cristiani e nella comunità della Chiesa. L’invito reale da esperienza ad esperienza e nient’atro fu, umanamente parlando, la forza missionaria dell’antica Chiesa. La comunità di vita della Chiesa invitava alla partecipazione a questa vita, in cui si svelava la verità da cui veniva questa vita. Viceversa l’apostasia dell’età moderna si fonda sulla caduta di verifica della fede nella vita dei cristiani. In questo si dimostra la grande responsabilità dei cristiani oggi. Essi dovrebbero essere dei punti di riferimento della fede come di persone che sanno di Dio, dimostrare nella loro vita la fede come verità per diventare così dei segnavia per gli altri. La nuova evangelizzazione, di cui abbiamo oggi urgente bisogno, non la realizziamo con teorie astutamente escogitate: l’insuccesso catastrofico della catechesi moderna è fin troppo evidente. Soltanto l’intreccio tra una verità in sé conseguente e la garanzia nella vita di questa verità può far brillare quell’evidenza della fede attesa da ogni cuore umano; solo attraverso questa porta lo Spirito santo entra nel mondo.
La mediazione attraverso Gesù, degli apostoli e quella dei santi che ne deriva si uniscono infine in una terza riflessione. L’atto di fede è un atto profondamente personale, ancorato nella più intima profondità dell’io umano. Ma proprio perché esso è interamente personale, è anche un atto di comunicazione. L’io nella sua essenza più profonda è riferito al tu e viceversa: il rapporto reale, che diventa “comunione”, può nascere soltanto nella profondità della persona. L’atto di fede, abbiamo detto, è partecipazione alla visione del Dio che possiede un volto umano, a Gesù, un appoggiarsi su Gesù, risorto, ecclesialmente, sacramentalmente presente; Giovanni che si appoggia al cuore di Gesù è un simbolo, una icona di quanto propriamente la fede significa. La fede è incontro, comunione con Gesù Cristo e in tal modo liberazione dalla repressione che si oppone alla verità, al bene, a Dio, liberazione del mio io dalla sua chiusura in se stesso per farne una risposta al Padre, al sì dell’amare con il suo amore, al sì verso la realtà in tutti gli ambiti cioè alla verità che libera, a quel sì che è la nostra redenzione e che vince il “mondo. La risurrezione, la presenza sacramentale, ecclesiale continua di Gesù è come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte inaugurando una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge continuamente un mondo nuovo anche attraverso pochi per i molti, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.
La fede è, in corrispondenza, a partire dalla sua più intima essenza un “co-essere”, una fuoruscita da quel isolamento del mio io che è la sua malattia. L’atto di fede è apertura alla vastità, rottura della barriera della mia soggettività – quello che Paolo descrive con le parole: “Io vivo, ma non più io, bensì Cristo vive in me” (Gal 2,20). L’io liberato si ritrova in un io più grande, nuovo. Paolo definisce “rinascita” questo processo di scioglimento del primo io e del suo nuovo risveglio in un io più grande. In questo nuovo io verso cui la fede mi libera, mi trovo unito non solo con Gesù, ma con tutti coloro che hanno percorso la stessa strada. In altre parole: la fede è necessariamente ecclesiale. Vive e si muove nel noi della Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, unita con l’io comune di Gesù Cristo. In questo nuovo soggetto cade il muro fra me e l’altro; il muro che divide la mia soggettività dall’oggettività del mondo e che me lo rende inaccessibile, il muro fra me e la profondità dell’essere. In questo soggetto nuovo io sono al tempo stesso con Gesù, e tutte le esperienze della Chiesa appartengono a me, sono diventate mie proprie.
Naturalmente questa rinascita non si compie in un momento, ma attraversa tutta la strada della mia vita. Ma è essenziale il fatto che non posso costruire la mia fede personale in un dialogo privato con Gesù. La fede o vive in questo noi, oppure non vive affatto. Fede e vita, verità e vita, vangelo e cultura, io e noi non sono separabili, e solo nel contesto della comunione di vita nel noi dei credenti, nel noi della Chiesa, la fede sviluppa la sua logica, la sua forma organica.
Qui può sorgere in verità la domanda: dove trovo la Chiesa? Dove essa diventa per me vivibile quale essa è in verità, al di là della sua dottrina ministeriale e del suo ordine sacramentale? Questa domanda può diventare una vera necessità. E tuttavia oggi si offrono accanto alla parrocchia come spazio normale e globale dell’esperienza di fede anche comunità formatesi recentemente, le quali nascono proprio da questa comunione della fede e le conferiscono di nuovo freschezza di un’esperienza immediata. Comunione Liberazione, accanto a tanti altri carismi, è uno di questi luoghi di esperienza di Chiesa e, in tal modo, di accesso alla comunione con la presenza di Gesù Cristo, alla partecipazione della sua continua visione. Affinché un simile movimento rimanga sano e veramente fecondo, è importante mantenere in giusto equilibrio due aspetti. Da una parte una simile comunità dev’essere realmente cattolica, cioè portare in se stessa la vita e la fede di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e lasciarsi formare di qui. Se non affonda le sue radici in questo fondamento cattolico comune, essa diventa settoriale e insensata. Ma d’altra parte la Chiesa universale diventa astratta e irreale se non viene rappresentata viva qui e oggi, in questo luogo e in questo tempo, in una comunità concreta. In tal modo la vocazione di simili movimenti, nelle singole “comunità”, di qualunque specie esse sono, è quella di vivere una vera e profonda cattolicità, anche con la rinuncia al proprio, che ciò comporta. Allora esse diventano feconde, perché allora diventano esse stesse Chiesa: luogo dove la fede nasce e così luogo della rinascita della verità.
Leggendo la Lumen fidei ho rivissuto gli esercizi a Collevalenza tenuti dal card. Ratzinger nel 1986 su fede, speranza, carità e pubblicati da Jaca Book con il titolo Guardare Cristo. Ho riproposto gli appunti che ritengo utili per un piccolo contributo alla comprensione dell’Enciclica.

Fonte: Un primo approccio alla Lumen fidei.

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