Una speranza per Rimsha e le troppe albe tristi di Asia | Commenti | www.avvenire.it

C’è da dolersi perché in Pakistan una ragazzi­na disabile mentale è rinchiusa nella cella di un carce­re per adulti da quasi tre setti­mane sulla base di un’accusa fa­sulla. C’è da stupirsi perché l’i­mam che ha costruito questa falsità è stato arrestato sabato scorso, senza però che ciò spingesse il giudice a porre rimedio im­mediatamente, scarcerando la piccola Rimsha. E non c’è molto da meravigliarsi se il capo degli u­lema ha invece chiesto che la giovane venga su­bito rimessa in libertà.

Sono tutti fattori – alcuni purtroppo noti e altri nuovi – di un’equazione che alla fine continuerà a dare lo stesso risultato: anche in Pakistan le minoranze, quali che esse siano purché diverse dall’islam, resteranno di­scriminate e soggiogate. Soprattutto grazie a una legge, quella sulla blasfemia, che nessuno di quelli che possono farlo si sogna di modificare. La reazione degli islamici più attenti e dialoganti, fin dalle prime fasi della vicenda esplosa a metà agosto, era stata di solidarietà alla ragazzina. Poi anche le frange più ‘istituzionalizzate’ e fonda­mentaliste hanno cominciato a dire che Rimsha andava liberata se fosse stata dimostrata l’incon­sistenza delle accuse. Perché? Perché senza ne­gare la possibile magnanimità di queste voci, senza dimenticare gli aspetti umani della vicen­da, i riflettori del mondo si erano puntati su Isla­mabad. E su una legge che con occhi da cittadini di Paesi democratici e rispettosi della libertà di religione, ma anche con i puri e semplici occhi della ragione, appare ed è iniqua.

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