«Vi presento i nuovi jihadisti autoctoni italiani» | Tempi.it

agosto 28, 2014Chiara Rizzo

Si documentano su internet, hanno poca dimestichezza con l’arabo, faticano a trovare contatti con i terroristi. E se partono per la guerra o non ritornano o finiscono in cura dallo psichiatra

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Cinque persone risultano indagate a Venezia per associazione con finalità di terrorismo: sarebbero cinque stranieri, residenti in Veneto, che avrebbero aiutato l’Isis, l’autoproclamatosi Califfato dell’Iraq e del Levante. L’esperto di islam Lorenzo Vidino, senior follow al Center for security studies di Zurigo, già nell’aprile del 2014 aveva parlato del fenomeno e dei rischi della jihad nel nostro paese, con l’ebook Il jihadismo autoctono in Italia, edito dall’Ispi, e realizzato consultando documenti della nostra intelligence.

Vidino, lei nel suo libro cita come caso emblematico la storia di Anas el-Abboubi. Perché?
Quello di el-Aboubbi è un esempio di questo tipo di fenomeno molto nuovo per l’Italia, abituata al jihadismo vecchia maniera, che da noi esiste dalla metà degli anni Novanta, e riguardava gli immigrati di prima generazione, in contatto tramite moschee con gruppi radicali e terroristici. El-Abboubi rappresenta, invece, una generazione di persone nate o arrivate in Italia in tenera età e socialmente ben ambientate. Anas è nato a Marrakech nel 1992, ed è arrivato con la famiglia dal Marocco nella provincia di Brescia a 7 anni. Parla italiano con un forte accento bresciano ed è ben integrato. La famiglia stava relativamente bene, e lui ha frequentato amici italiani. Si è diplomato in istituto tecnico, s’è appassionato al rap e in un video su Mtv ha raccontato della sua doppia identità. Diceva sentirsi italiano, ma anche marocchino. Ad un certo punto della sua vita, il giovane è diventato religioso: ha smesso di bere, fumare e di uscire con le ragazze. In una traiettoria molto rapida, ha finito per abbracciare il jihad. El Abboubi poi è passato a mettere in atto un atteggiamento abbastanza comune a tutti i profili del nuovo jihadismo: ha cercato di fare proselitismo e creare il gruppo “Sharia4Italy”. Nel nostro paese ha raccolto solo quattro adesioni, tutte di vecchi amici. Il massimo che sono riusciti a fare è stato andare in piazza della Loggia a Brescia, con la bandiera islamica, la shahada, farsi delle foto e pubblicarle, nella speranza di fare street dawa, proselitismo in strada.

El Abboubi ha frequentato qualche moschea?
No. E questo malgrado il padre del ragazzo sia nella dirigenza del centro islamico del suo paese: Anas però riteneva che l’islam professato nelle moschee italiane non avesse che fare con il suo islam. Una delle caratteristiche del fenomeno italiano è che il proselitismo non trova molti adepti, l’altra è la scarsità di contatti con le moschee. Questo non significa che non esistano moschee problematiche da noi, ma è vero che la maggior parte delle moschee italiane è molto diffidente nei confronti di soggetti del genere. Perciò i jihadisti di seconda generazione tendono a rimanere estranei alla moschea, mentre si raggruppano per lo più su internet. El Abboubi stava molte ore collegato su facebook, ed era legato con altri simpatizzanti del jihad, almeno a parole. Nel giugno 2013 è stato arrestato perché sospettato di organizzare un attentato. Due settimane dopo, il Tribunale del riesame lo ha liberato. Poche settimane dopo la liberazione, El Abboubi è partito per la Siria e si è unito ad un gruppo di jihadisti. Ha aperto una pagina facebook, facendosi chiamare Anas Al-Italy, e ha postato varie foto della sua attività militare: dallo scorso gennaio non si hanno più notizie di lui.

Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha parlato del rischio dei “foreign fighters” in Italia, citando le informative dell’intelligence. Già ad aprile, lei aveva avanzato una stima numerica dei jihadisti attivi sul nostro territorio: quanti sono e qual è il loro identikit?
Ci sono circa un centinaio di soggetti in Italia che danno segnali di interesse al jihadismo, nelle modalità esemplificate prima. Ma solo un numero ridotto di queste persone passerà dal “jihadismo da tastiera” all’andare effettivamente in Siria o Iraq. Per il momento quasi tutte queste persone passano la giornata a postare video su facebook e messaggi di solidarietà per gli attentati. Tra i fattori che rendono difficile il passaggio all’operatività c’è quello logistico. Questi nuovi jihadisti possono anche andare in Turchia e da lì attraversare facilmente il confine con la Siria. Ma non è così semplice essere accolti tra i combattenti. Occorre un “aggancio”, una “presentazione” o un contatto diretto, ma in Italia non è così semplice trovare questo aggancio, proprio perché la scena dei nuovi terroristi è piccola, frammentata. Un esempio comunque di questo salto è il caso del genovese Giuliano Delnevo. Partito una prima volta per la Siria, è tornato indietro: ma la seconda volta è riuscito a entrare tra i jihadisti, fino alla morte. Ora si indaga per capire se qualcuno lo abbia aiutato, dove e come ci sia stato un contatto tra lui e il “gancio”; e se quest’ultimo sia legato all’Italia.

La madre di Delnevo ha ritrovato un diario che apparterebbe al figlio e che sarebbe stato scritto durante la sua militanza: «Noi viviamo duramente mentre i capi vivono ben sistemati in case o alberghi». Le risultano casi di jihadisti che hanno visto naufragare le loro illusioni nel confronto con la realtà dell’Isis?
Ho parlato e conosciuto molto bene il padre di Delnevo e lui è abbastanza scettico sul diario. Quello che posso dire, però, in generale, è che è vero che alcuni jihadisti trovano una realtà differente rispetto a quella dipinta dalla propaganda. Molti di quelli partiti con l’obiettivo di aiutare i sunniti contro Bashar al Assad, si sono ritrovati a combattere contro i sunniti stessi. Inoltre, non tutti sono preparati psicologicamente ad affrontare la brutalità della guerra: conosco vari casi di sedicenni europei, partiti per il jihad, poi rientrati in Europa e ora curati da psichiatri. È chiaro che il rientro non è semplice, l’Isis non è certo una porta girevole.

Nel suo libro lei descrive il suo monitoraggio dell’attività su internet dei presunti jihadisti autoctoni italiani. L’uso dei media e dei social network è una delle principali caratteristiche del Califfato islamico. Come ha effettuato il suo studio e cosa ne è emerso?
I jihadisti da tastiera, oltre ad essere di seconda generazione o convertiti, hanno la caratteristica di non conoscere nemmeno bene l’islam. La loro “conversione” si basa molto su nozioni apprese dalle pagine di internet, e perciò sono facilmente influenzabili. Si tratta di persone che postano spesso le attività che svolgono, ad esempio i seminari o gli incontri con imam. Spesso commentano la politica, anche quella italiana o fatti di costume. È normale vederli postare a distanza di poche ore le ultime notizie sull’avanzata dell’Isis, le news su Sanremo o sul Movimento 5 stelle. Parlano moltissimo di religione: chiedono spiegazioni sul concetto di fatwa o sulla giurisprudenza islamica. Hanno anche gruppi di discussione on line, caratterizzati dall’estremismo. Un altro dato è che spesso queste persone non parlano nemmeno bene la lingua araba, non hanno capacità di andare alle fonti dirette dell’islam. E faticano, anche per questo, ad avere anche contatti “off line”.

Esiste un rischio di infiltrazioni terroristiche con gli sbarchi di migranti in Italia? Il ministro Alfano lo ha scartato, sebbene non abbia escluso le infiltrazioni “micro” di singoli. È d’accordo?
Condivido quello che ha dichiarato il ministro Alfano. La scena di cui parliamo ci racconta di persone che non vengono in Italia su un barcone, ma casomai che hanno la cittadinanza italiana. E se un gruppo terroristico avesse interesse ad entrare in Italia avrebbe canali più efficienti dei barconi. Semmai il collegamento è un altro: le organizzazioni jihadiste nordafricane si arricchiscono proprio con l’attività degli scafisti. In Libia, in particolare, dove il caos è totale, sono le milizie jihadiste a controllare i viaggi sui gommoni.

Fonte: «Vi presento i nuovi jihadisti autoctoni italiani» | Tempi.it.

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