ZENIT – Cristiani iracheni controcorrente

Nonostante le difficoltà, non tutti fuggono, alcuni tornano

di Rodolfo Casadei

ROMA, sabato, 15 settembre 2012 (ZENIT.org).- Negli ultimi anni i cristiani iracheni che non sono fuggiti all’estero si sono trasferiti in massa da Baghdad, Bassora e Mosul ai villaggi della Piana di Ninive o in Kurdistan, dove la sicurezza è garantita dai soldati curdi (formalmente una componente dell’esercito iracheno, di fatto al servizio del governo regionale del Kurdistan dominato da due partiti, Pdk e Puk). Ora a ritmo più cadenzato anche quelli reinsediati nel nord attraversano il confine con la Turchia, e da lì nel giro di qualche anno emigrano in Europa o in America. Ma ci sono tanti che resistono e c’è anche chi percorre il cammino all’incontrario. Come abbiamo ricordato all’inizio in tutto l’Iraq restano circa 350 mila cristiani, e di questi nella sola capitale 150 mila; del tracollo di Mosul s’è detto. Invece sono lievitate le diocesi del Kurdistan e le cittadine della Piana di Ninive, che complessivamente hanno raddoppiato la popolazione cristiana da 40 mila a 80 mila unità, mentre la diocesi di Dohuk-Zakho è diventata la seconda del paese sfondando probabilmente quota 100 mila. Anche Erbil, dove sono stati trasferiti il seminario interdiocesano e la facoltà teologica, ha visto un boom di immigrazione cristiana: il quartiere a maggioranza cristiana di Ankawa ha visto raddoppiare il numero delle famiglie da 2 mila a 4 mila. Nella piana di Ninive i cristiani hanno rafforzato le maggioranze, a volte schiaccianti, che avevano in tutte le cittadine con l’eccezione di Tel Qaif, la località di cui è nativo il patriarca Emmanuele Delly III: qui i cristiani da maggioritari che erano sono scesi al 30 per cento, e i loro sacerdoti sono emigrati tutti negli Usa tranne uno. Ma è proprio qui che incontriamo Samira, un’anziana signora che è tornata dopo cinque anni trascorsi a Detroit per assistere le tre nipoti, rimaste orfane dopo la morte di sua figlia. Vive nella casa del genero, che non si è risposato: «Per me», dice, «qui o in America è la stessa cosa: non uscivo di casa là e non esco nemmeno qua». «Vivere un solo giorno in Iraq vale più che vivere tutta la vita in America», sentenzia Yohannes, il genero rimasto vedovo. Un massiccio cinquantenne che sussulta di orgoglio. Lui non si è accodato alla colonna dei richiedenti asilo, né ha sfruttato la sua posizione di parente di una famiglia che era già stata accolta negli Usa. Avrà avuto le sue ragioni personali per farlo, ma non sottovalutate mai il senso dell’onore della gente di queste parti. Mostrarsi coraggiosi e comportarsi di conseguenza è fondamentale per essere rispettati dalla comunità in cui si vive. Ci si arrende agli abusi dei prepotenti solo se non è possibile fare diversamente, si va via solo se la sussistenza materiale diventa impossibile.

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