ZENIT – Turchia: non siamo qui per convertire ma per convertirci

Lo dichiara ad ACS l’arcivescovo metropolita di Smirne, monsignor Ruggero Franceschini

 

ROMA, mercoledì, 5 dicembre 2012 (ZENIT.org).- «Essere minoranza al confronto con una moltitudine musulmana si traduce spesso in limitazioni alla libertà di espressione e nell’impossibilità di manifestare la nostra fede se non all’interno delle chiese». Al telefono con Aiuto alla Chiesa che Soffre monsignor Ruggero Franceschini, arcivescovo metropolita di Smirne, racconta cosa significa essere uno dei 51.878 cristiani su una popolazione di oltre 70 milioni di abitanti. Ancora oggi in Turchia i cristiani sono spesso apostrofati con il termine “javur”, [infedeli], e considerati alla stregua di «stranieri che introducono costumi occidentali, nocivi all’integrità dell’Islam, e che fanno proseliti soprattutto tra i giovani».

Monsignor Franceschini, che dalla morte di monsignor Luigi Padovese è anche presidente della Conferenza episcopale turca, ha iniziato il suo servizio pastorale in Anatolia nella metà degli anni ’80, dapprima nel Sud del Paese. «Mersin, Antiochia, Iskenderun, Tarso, sono città bellissime, in cui ho trovato un’accoglienza molto calorosa. D’altra parte nessuno dei leader che si sono succeduti in quegli anni aveva tendenze islamiche». Prima di quello attuale, i governi erano tutti laici e aperti, sebbene profondamente legati al concetto di patria. Da oltre un decennio invece il Paese è amministrato da governi filo-islamici che si definiscono moderati, ma che in realtà non lo sono. E non sempre le dichiarazioni di laicità corrispondono a scelte concrete di rispetto del diverso».

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