Finkielkraut: «Ospitalità non significa abolire se stessi» | Tempi.it

gennaio 12, 2014 Rodolfo Casadei

«Ospitalità è dare agli altri il tesoro che si possiede. E non si guadagna nulla a neutralizzare la propria appartenenza a un popolo». Intervista al filosofo francese dopo la nuova “rupture” su immigrati e integrazione

francia-islam-shariaÈ finita la tregua d’armi fra Alain Finkielkraut e la sinistra “bobo” francese. Due anni fa il suo Et si l’amour durait, profondo e delicato commento a quattro romanzi amorosi antiromantici, aveva fatto l’unanimità. Il ritorno alle tematiche politiche risuscita le contrapposizioni. Nel nuovo libro, L’identité malheureuse (L’identità infelice), l’autore scrive che il disagio e le violenze dei quartieri ad alta concentrazione migratoria non si spiegano solo con la povertà e le discriminazioni, ma occorre prendere in considerazione le specificità culturali dei nuovi venuti e la rinuncia del sistema educativo e delle élite culturali a proporre l’integrazione, perché non credono più nella Francia come civiltà.

Il tema dell’identità e dell’appartenenza viene riproposto con tutte le cautele di cui un pensatore di estrazione ebraica, che ha perduto parenti e amici di famiglia ad Auschwitz, è ovviamente armato. E con un corredo di citazioni che fanno perno su uno degli interventi meno pubblicizzati di Claude Lévi-Strauss, l’antropologo a cui ci si appella per giustificare il relativismo culturale, e che Finkielkraut invoca invece a garanzia del diritto degli autoctoni a non essere così totalmente aperti alla diversità come sociologi e pensatori post-moderni vorrebbero. È bastato questo perché Le Monde titolasse: “Finkielkraut scherza col fuoco”. Perché i recensori di varie testate scrivessero che «non appartiene più a se stesso», che è pervaso da «una malinconia arcigna», che ci troviamo di fronte al «fallimento di una grande intelligenza», a «uno spirito che si è ammalato», che è diventato «un forsennato dell’identità».

I più ostili lo hanno descritto come un alleato occulto di Marine Le Pen, quelli che volevano mostrarsi obiettivi lo hanno etichettato di «pessimista». Persino il fatto che non possieda un cellulare o un computer sono diventati capi di accusa contro un pensatore che non potrebbe veramente capire la contemporaneità, perché la guarda con eccessiva desolazione. Eppure questo uomo apparentemente ai margini del suo tempo sembra averne comprese le contraddizioni e i paradossi meglio degli intellettuali più “branché”. Senza rinunciare a indicare percorsi per una ripresa.

finkielkraut-l-identite-malheureuseNel suo ultimo libro, L’identité malheureuse, lei scrive che è sbagliato spiegare la generale crisi della convivenza e l’aggressività giovanile nei quartieri ad alta concentrazione migratoria con le tradizionali cause legate all’emarginazione sociale ed economica e agli atteggiamenti più o meno razzisti della maggioranza; ci sarebbero altre ragioni e altre cause, che non vogliamo vedere e che non vogliamo chiamare per nome per paura di essere accusati di razzismo. Quali sono? Lei ha il coraggio anticonformista di chiamarle per nome?
Oggi si ama dire che in Francia e in Europa stiamo rivivendo le situazioni degli anni Trenta. Una prospettiva del genere sarebbe inquietante, ma non certo inedita. Si pretende dunque che i francesi stiano dando prova di razzismo e di xenofobia davanti ai nuovi venuti, gli immigrati. Questa realtà esiste ed è triste, ma non spiega tutto. Nel 2002 in Francia è apparso un libro intitolato Les territoires perdus de la République. Lo hanno scritto alcuni insegnanti per raccontare la loro esperienza nelle scuole dei quartieri cosiddetti difficili o sensibili. Parlava della misoginia, dell’antisemitismo, dell’ostilità ai valori repubblicani e persino della francofobia che sono endemici in quei quartieri. Negli anni Trenta non c’erano territori perduti della Repubblica. È una grossa differenza, ed è proprio per questo che fino all’uscita di quel libro né i giornalisti né i sociologi si erano dedicati a un’inchiesta del genere. Questa realtà fa paura, perché non si sa come trattarla e si teme di resuscitare i vecchi demoni. L’Europa è ancora traumatizzata per il suo XX secolo, ma adesso è necessario guardare in faccia la realtà attuale. E la realtà si serve della diversità. Le scienze umane ci hanno insegnato che non esiste un’unica umanità, ma che ogni umanità appartiene a una cultura. Noi non abbiamo saputo trarre tutte le conseguenze di questa grande lezione: pensiamo che la diversità sia per forza un bene, che possa soltanto arricchire una società. Ma succede a volte che le culture, i modi di essere, di agire e di abitare il mondo siano fra loro incompatibili, o conflittuali. Ed è di questo che oggi non ci rendiamo abbastanza conto in Francia e in Europa.

Lei scrive che in Francia e in Europa stiamo assistendo al rigetto puro e semplice dell’identità, a un vero e proprio processo di “disidentificazione”. Rifiutiamo sia l’identità particolaristica che quella universalistica, e concepiamo la Francia e l’Europa semplicemente come spazi per l’espressione delle culture “Altre”. Ma l’identità universalista parrebbe rappresentare ancora una parola d’ordine della Francia e dell’Europa: all’Ucraina è stato chiesto di liberare l’ex premier Tymoshenko e di approvare una legge contro l’omofobia come condizioni per essere associata all’Europa; la Francia invia truppe in Africa e approva il matrimonio fra persone dello stesso sesso in nome dei diritti umani. L’identità universalista sembra in auge.
Io direi che l’Europa è pronta ad affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, a riconoscersi nei valori della tolleranza e del rispetto, ma essa non assume il suo essere, rifiuta di concepirsi come una civiltà. Quando si tratta di affrontare la questione dell’integrazione, l’Europa proclama che essa deve avvenire nei due sensi, cioè che la cultura del paese o del continente d’accoglienza non deve avere alcun privilegio su quella dei nuovi arrivati. L’Europa si allontana dalla sua eredità e non conserva di sé se non ciò che fa di lei una pura apertura. L’Europa si spinge verso l’Oriente, l’Oriente è il suo ultimo ideale. Riguardo all’Ucraina, essa esige, giustamente, che quella rispetti le norme, le regole e i princìpi unificatori dell’Europa per essere associata; ma quando degli ucraini si rivolgono all’Unione Europea in nome dell’appartenenza a un comune spazio di civiltà, l’Europa fa la sorda o comunque non si muove al di là del minimo sindacale. Non oppone alcuna resistenza alle ambizioni imperialiste russe del presidente Putin. Proprio perché l’Europa si trova molto a disagio con tutti coloro che le ricordano che essa è una civiltà ben precisa. Vuole essere kantiana; e allora viene in mente quello che scrive al proposito Péguy: «Kant ha le mani pulite, ma non ha le mani».

francia-velo-islam-hollandeEvidentemente lei rigetta l’inclinazione europea attuale a cancellare la propria identità per aprirsi meglio all’Altro, e afferma che un’identità particolare è necessaria, e lo è al livello dello Stato-nazione, come nel caso della Francia. Perché ancora oggi abbiamo bisogno di questo tipo di identità? Perché, come lei scrive nel suo libro, il mondo ha bisogno di frontiere?
Perché gli uomini non sono dèi. E le frontiere ce lo ricordano. Dio non ha debiti verso nessuno, Dio si fonda su se stesso. Gli uomini invece non sono in grado di autofondarsi. Vengono da un qualche luogo, parlano una lingua, hanno una memoria. È in tale quadro soltanto che possono formare una comunità. Questa comunità deve certamente avere delle ambizioni riguardanti l’intera umanità, ma l’umanità come tale non è una comunità. Tutti coloro che pretendono di essere cittadini del mondo sono in realtà dei puri consumatori planetari. Per sentirsi responsabili, bisogna anche essere degli affiliati, e credo che non si guadagni nulla a voler neutralizzare la propria appartenenza a un popolo o ad una nazione.

C’è il pericolo che la sola alternativa al politicamente corretto, sempre più sordo e cieco di fronte alla realtà, consista in un ritorno al “politicamente abietto”, cioè alla xenofobia, al nazionalismo sciovinista, alla politica dei capri espiatori. È possibile una terza via? Lei sembra abbozzarne una nel suo libro.
Sì, c’è una terza via che il politicamente corretto non vuole riconoscere. Ogni critica al politicamente corretto, ogni attentato al modo d’essere dei benpensanti, qui in Francia viene immediatamente etichettato come una “lepenizzazione delle anime”. E questa è una disonestà intellettuale di tipo terroristico, oso dire. Non c’è niente di ignobile nel volere guardare in faccia la realtà, tanto meno c’è qualcosa di ignobile nel chiedere all’islam di sottomettersi alle leggi della Repubblica, nel mentre che il politicamente corretto esige, in nome dell’antirazzismo, che la Repubblica si adatti alle esigenze dell’islam. Le leggi che proibiscono l’ostentazione di simboli religiosi in ambito scolastico sono del tutto legittime: non hanno niente di islamofobico. Lo Stato francese è stato molto più duro, molto più esigente con i cattolici all’epoca dell’anticlericalismo acceso di quanto non lo sia oggi con i musulmani. Questo deve essere ricordato. Non si tratta di rompere con la tradizione dell’ospitalità: sarebbe politicamente abietto. Si tratta di dire che l’ospitalità non consiste nell’abolire se stessi, nel fondersi nell’alterità. Essa consiste nel dare agli altri il tesoro che si possiede.

finkielkraut-alain-franciaLei scrive che oggi il problema, soprattutto in ambito educativo ma non solo, è che tutti vogliono essere rispettati e riconosciuti, ma nessuno vuole rispettare e riconoscere gli altri. Nessuno accetta di moderare la stima di sé. Si tratta di un processo inesorabile che coincide col processo e lo spirito democratici che livellano e cancellano tutte le differenze? Ma allora bisogna rinunciare alla democrazia per ritrovare il rispetto di tutti verso tutti? È possibile salvare il sistema politico democratico e contemporaneamente cercare di arrestare il processo democratico?
Intanto bisogna distinguere le due cose. Io credo che il sistema democratico deve essere effettivamente preservato e rinforzato, ma è lo stesso processo democratico, quando sfocia nel nichilismo del tutto uguale a tutto, che mette in pericolo l’esercizio stesso della democrazia. Si tratta anche di fare in modo che il risentimento e l’invidia non abbiano l’ultima parola in democrazia. Occorrerebbe per esempio preservare nella democrazia la capacità di ammirazione, che è cosa diversa dal rispetto; ricordare che la democrazia non deve uscire dal suo alveo, che la cultura non è democratica, poiché conduce incessantemente a stabilire delle gerarchie. Che l’educazione si rivolge a tutti, ma che la riuscita per tutti è solo uno slogan, e per di più pericoloso. Si tratta dunque, per salvare la democrazia, di combattere l’eccesso di democrazia.

Lei scrive che il nostro mondo manca di intelligenza del presente: si è ossessionati dall’idea che tutto quello che accade sia una ripetizione del passato, e si cerca di prevenire la ripetizione di certi tragici avvenimenti. Non pensa che la riabilitazione della categoria di avvenimento potrebbe aiutare il mondo a concepire di nuovo l’idea che la novità, sia positiva che negativa, è possibile?
Senza dubbio, ma il fatto è esattamente che la novità può anche avere un volto spaventoso, può essere catastrofica. Non tutti gli avvenimenti appartengono alla categoria del miracolo. Semplicemente, è molto difficile pensare il presente nei termini che gli sono propri. Paul Valéry diceva che «il presente è ciò che non si è mai presentato fino a quel momento». Le lezioni della storia devono essere imparate, ma è rischioso abbassare, in nome delle lezioni che vengono dalla storia, ciò che è sconosciuto a ciò che è già noto. Oggi stiamo soccombendo a questa tentazione, e io credo che sia venuto il tempo di svegliarci da questa specie di egocentrismo ideologico.

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