Max Planck: “in alto, verso Dio”

Tra i nomi dei grandi fisici della storia, campeggia quello di Max Planck, il padre della fisica quantistica che nel 1900 “avanzò l’ipotesi che l’energia venisse irradiata in quantità discrete che chiamò quanti e formulò la legge che collega proporzionalmente l’energia di un singolo quanto alla frequenza della radiazione, secondo una costante universale nota come costante di Planck” (Bersanelli-Gargantini, Solo lo stupore conosce). Non è dei quanti che vorrei né saprei parlare, quanto della persona e della filosofia di Planck. Mi servirò soprattutto della sua “Autobiografia scientifica”, una raccolta di brevi saggi che comincia così: “La decisione di dedicarmi alla scienza fu conseguenza diretta di una scoperta che non ha mai cessato di riempirmi di entusiasmo fin dalla giovinezza: le leggi del pensiero umano coincidono con le leggi che regolano la successione delle impressioni che riceviamo dal mondo intorno a noi, sì che la logica pura può permetterci di entrare nel meccanismo di quest’ultimo. A questo proposito è di fondamentale importanza che il mondo esterno sia qualcosa di indipendente dall’uomo…”.

Siamo, mi sembra, di fronte ad un atto di fede di tipo tomista, realista, nella realtà. Planck, che fu anche accademico pontificio, procede sostenendo che le conoscenze scientifiche mostrano che “l’assoluto” è “molto più radicato nell’ordine delle leggi naturali di quanto si fosse creduto per molto tempo”, “poiché tutto ciò che è relativo presuppone qualcosa di assoluto, e ha un significato solo quando è confrontato con l’assoluto”. Se non ho frainteso, in questa introduzione Planck esprime una concezione filosofica che potremmo riassumere così: la scienza, lungi dall’essere una conferma del relativismo gnoseologico ed etico, è, come scrive Paolo Musso, “uno dei pochissimi luoghi in cui viene ancora preservato un pensiero che afferma una pretesa di verità, una esigenza di rigore e una apertura alla realtà a cui la nostra cultura ha ormai quasi completamente abdicato”. “Pretesa di verità” che, nei grandi ingegni, non è mai né riduzionismo né illusione di comprensione totale. Ce lo spiega sempre Planck nel momento in cui da una parte condanna lo scetticismo, e dall’altra stigmatizza chi non è più capace “di meravigliarsi più di nulla”; chi, abituato alle leggi che “regolano la sua immagine del mondo”, ignora che “il problema del perché queste e non altre leggi valgano, resta stupefacente e inesplicabile come per il bambino”.

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