A VOLTE RITORNANO | Da Porta Sant’Anna

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Si dice che alcuni, a volte, ritornino. A noi piace pensare, in modo più franco, che torni soltanto chi non è mai andato via.

Una rivista di teologia, sconosciuta forse al grande pubblico, si interroga sull’ortodossia della fede. Parolone cupo, che evoca inquisizioni e Uffizi santi, Cardinali tedeschi e papati restauratori. Tanto cupo da essere desueto o facilmente riconducibile alla Chiesa Ortodossa, che scelse per sé questa denominazione dopo aver provveduto ad infliggere all’unità cattolica la ferita dello scisma. Il risultato dell’analisi è scontato: il cattolicesimo sarebbe segnato da un dogmatismo che ha alterato, se non proprio soffocato, il messaggio di Gesù.
Con buona pace degli ingenui, una modo siffatto di intendere la nostra fede non è mai arretrato. Ha trascorso momenti non del tutto brillanti, specialmente sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma ha saputo attendere, come se nulla accadesse, con una pazienza invidiabile. Nel frattempo non ha smesso di coltivare il proprio terreno. Come spiegheremmo, del resto, le parole di Paolo VI su  un pensiero non cattolico che sarebbe potuto diventare  dominante?

Non è importante che il cattolico medio sappia definire l’ortodossia della sua fede. L’importante è che si riconosca nelle verità della sua fede ortodossa, che le professi e che le viva nella sua personale conformazione a Cristo e nella sua testimonianza. La maggior parte dei martiri non aveva mai conseguito titoli accademici. Si era semplicemente fidata della Chiesa, ritenendo assolutamente vero il Credo. Se vogliamo, si tratta di un candore che esula dalle condizioni di vita e dalle possibilità di formazione, ma che si rivela come manifestazione dello Spirito Santo nell’anima di chi professa la divinità di Cristo. Perchè è evidente che se Cristo non è adorato come il Signore e il Figlio di Dio, il Salvatore e il Giudice, anche lo Spirito Santo può essere confuso con stati emozionali o con altre manifestazioni, non deprecabili aprioristicamente ma perfettamente ascrivibili in un diverso orizzonte religioso o filosofico. A coloro che distinguevano la Chiesa trionfante dalla Chiesa militante, Giovanna d’Arco risponde: “Che Dio e la Chiesa siano una cosa sola, mi sembra chiaro. Ma voi, perché fate tanti cavilli?”.

Aver chiaro che Dio e la Chiesa sono una cosa sola: questa è l’ortodossia! Semmai oggi si tratta di comprendere di quale Dio si tratti, e di quale Chiesa. Forse, in maniera meno complicata, si tratta di tornare all’esperienza che è descritta (non fissata, nè trattenuta) nel Vangelo.
E’ quell’esperienza che due hanno fatto all’inizio: “dove abiti?”. Andarono e videro, come propose quel Maestro. Chiamarono altri, entrarono in un rapporto di intimità, aderirono alle sue parole, videro dei segni prodigiosi. Appresero un mistero, cominciarono a comprendere una verità, toccarono una carne e si sentirono portati in un’altra dimora, da cui quell’Uomo veniva. Prima della missione c’è l’intimità, prima dell’annuncio c’è l’adesione ad una verità, che è la Verità di quella Persona. Sapere che il maestro è Figlio di Dio, che è nel Padre senza essere il Padre, che è stato inviato, che deve morire e risorgere, che invierà un altro Paraclito, sono misteri che assumono un’articolazione corente e rigorosa. La libertà di interpretazione non esiste. O si crede che quell’Uomo è Dio o non si crede. E così, in un certo senso, per quanto lo si dica qui in una forma quasi semplicistica, nascono quei dogmi che l’ortodossia custodisce, propone, esplora sotto l’azione dello Spirito di Verità. Aderire alla fede della Chiesa significa essere certi di dimorare dove è Cristo. Anzi, la Chiesa stessa, proprio perchè rende possibile questa novità, è descritta come la “dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21, 3). Non solo: viene anche detto che in virtù della Chiesa, di questa dimora, Dio sarà il “Dio – con – loro”. Possiamo discettare sul significato recondito, sulla teologia che si esprime, sul contesto e sul periodo di composizione, ma alla fine il testo vuol dire quello che si capisce ad una lettura immediata: senza la Chiesa non esiste possibilità di comunione con Dio. La formulazione di questa possibilità è ciò che chiamiamo ortodossia. La nostra fede è dogmatica oppure non è. Respinta l’accezione negativa che il termine dogma può assumere, occorre riscoprire quella originaria di editto, di verità proclamata. Il dogma è l’illustrazione delle verità che Dio ha voluto rivelarci per la nostra salvezza, il contenuto stesso della fede, che la Chiesa deve proclamare affinchè tutti possano conoscere il vero Dio. Lo stesso Gesù ha chiesto esplicitamente di fare discepoli tutti i popoli, insegnando loro ciò che egli ha comandato (cfr. Mt 28, 20).
Come osservava Benedetto XVI, “la Chiesa, nata dal costato di Cristo, è divenuta portatrice di una nuova solida speranza: Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, salvatore del mondo, che siede alla destra del Padre ed è il giudice dei vivi e dei morti. Questo è il kerigma, l’annuncio centrale e dirompente della fede. Ma sin dagli inizi si pose il problema della «regola della fede», ossia della fedeltà dei credenti alla verità del Vangelo, nella quale restare saldi, alla verità salvifica su Dio e sull’uomo da custodire e trasmettere. San Paolo scrive: «Ricevete la salvezza, se mantenete [il vangelo] in quella forma in cui ve l’ho annunciato. Altrimenti avreste creduto invano» (1 Cor 15,2).
Ma dove troviamo la formula essenziale della fede? Dove troviamo le verità che ci sono state fedelmente trasmesse e che costituiscono la luce per la nostra vita quotidiana? La risposta è semplice: nel Credo, nella Professione di Fede o Simbolo della fede, noi ci riallacciamo all’evento originario della Persona e della Storia di Gesù di Nazaret; si rende concreto quello che l’Apostolo delle genti diceva ai cristiani di Corinto: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno» (1 Cor 15,3)” (Udienza generale del 17 ottobre 2012).
Può esistere il rischio del dogmatismo, come ripete il Santo Padre. Il rischio che questa fede, professata in tutta la sua integrità e con viva adesione della mente e del cuore, non sia capace di imporsi quale “luce per i passi del nostro vivere, acqua che irrora le arsure del nostro cammino, vita che vince certi deserti della vita contemporanea” (Benedetto XVI). Tuttavia, stazionare nei deserti in cerca di oasi, dimenticando che si porta con sè l’acqua che non viene mai meno, mortifica la fede tanto quanto il restarsene comodamente sotto la tenda per evitare le difficoltà del cammino. Che è poi il rischio serio della fede quando la salvezza assume una valenza esclusivamente orizzontale.
Tra le dune di questi deserti, nei quali “la vita è vissuta spesso con leggerezza, senza ideali chiari e speranze solide, all’interno di legami sociali e familiari liquidi, provvisori” (Benedetto XVI), non ci servono teologi che ritornino con le loro idee, spesso secolarizzate più della secolarizzazione che inghiotte i loro interlocutori. Ci servono uomini che ci ridicano la bellezza della fede della Chiesa; uomini rigidi quanto i martiri e teneri quanto le madri, che mai arretrerebbero di un centimetro se richieste di confessare il loro amore per i figli. Perchè, alla fine, non si tratta che di amore per Cristo.
Un cattolicesimo dogmatico trasforma la fede in una filosofia. Ma un cattolicesimo senza dogma, o con un dogma flessibile, riduce tutto ad un circolo di bridge.

E noi non vogliamo giocare a carte.

don Antonio Ucciardo

Fonte: A VOLTE RITORNANO | Da Porta Sant’Anna.

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