Anna, un’accoglienza che buca la tv | La Nuova Bussola Quotidiana

di Paola Bonzi

«Le farebbe piacere partecipare a una nostra trasmissione televisiva per raccontare della sua esperienza?». Non amo la televisione. Non so mai da che parte guardare. Mi sento sempre nel posto sbagliato. Ritengo, però, che la strada da percorrere, per il nostro Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli, sia, ora, quella della comunicazione. «Grazie – rispondo un po’ imbarazzata – mi dirà come, quando, dove, …».

Così, il giorno concordato, mi presento nello studio televisivo con il vivo desiderio di raccontare le cose che servono a diffondere notizie corrette sul nostro lavoro, un po’ nervosa e preoccupata. La trasmissione va avanti, percorre la sua strada e la mia impressione è quella di calma piatta. Infatti essendo di tipo interattivo, con gli spettatori che possono mettersi in contatto per rivolgere delle domande, riceviamo solo interventi che con il nostro CAV non c’entrano granché.

Con un filo di delusione mi preparo alla conclusione, quando: «Pronto, buongiorno. Mi chiamo Anna e, ormai anni fa, avevo deciso di  interrompere la mia gravidanza. Ho saputo del CAV da un’amica e mi ci sono recata. E non ho avuto solo il mio bambino, ho ricevuto tutto ciò che mi serviva avvolto di un’amicizia con alcune persone, amicizia che, ancora oggi, resta un bellissimo ricordo. Il mio bambino si sta laureando e io ho trovato la mia strada».

Anna! Ricordi che si affastellano. A quel tempo, inizio anni ’90, la nostra realtà si stava consolidando. Erano quasi dieci anni della nostra presenza in Mangiagalli e le richieste di ospitalità numerosissime. Avevamo organizzato due grandi appartamenti per fare accoglienza a madri nubili, come dico sempre, prima con il loro pancione e poi con il loro bambino. Uno di questi appartamenti, Lucia ne era la responsabile, si trovava in zona Città Studi.

Svolgendo il mio ruolo di operatore del colloquio, avevo incontrato e ascoltato una giovane donna, minuta e malinconica che, faticosamente, mi aveva messo a parte della sua intenzione di interrompere la gravidanza ormai di due mesi: «Sono da sola a Milano, la mia famiglia abita al Sud. Il padre di questo bambino dice di non essere pronto per il ruolo di genitore. Mi aveva fatto tante promesse, … Ora sembra tutto dimenticato e nella sua voce, quando riesco a parlargli, non trovo nessun accento affettuoso. Ho, stupidamente, interrotto gli studi per un lavoro che ci permettesse di tirare avanti ed è stato tutta un’illusione. Non ho casa e non me la sento di tornare dai miei in questo stato; quindi l’unica soluzione è disfarmi di questo impiccio. Dopo sarò più libera. Le mie, saranno delle scelte e non dei condizionamenti».

Mi vengono ancora i brividi al pensare che ‘l’impiccio’ era un piccolo bimbo apparentemente al riparo da tutto e, invece, in grave pericolo di sopravvivenza. Mi scuoto da questi torpori che, anche allora, certamente mi paralizzavano. Sapevo che nella nostra casa una camera era rimasta libera. Ciò mi permetteva di fare la mia proposta: «Anna, vero? Non ci siamo nemmeno presentati come servizio. Siamo il Centro di Aiuto alla Vita e la vita delle donne ci sta molto a cuore. Sappiamo quanto sia difficile prendere certe decisioni e che cosa resta dopo azioni da cui non si tornerà più indietro. Abbiamo così organizzato i nostri interventi in modo che le scelte siano davvero tali e, quindi, sto per proporle un’alternativa che lei potrebbe prendere in considerazione».

So di averle proposto un’accoglienza nella nostra casa. Nella casa le persone ospitate dovevano trovare un modo per una buona convivenza e per mantenere turni di lavori domestici. Chiedevamo anche che si mantenessero abitudini comunitari, come i pasti da consumare insieme e, per facilitare il tutto, diversi amici cercavano di favorire le buone prassi andando a trovare le nostre mamme. Il giovedì sera, erano gli amici a diventare ospiti. Le future mamme si davano da fare per preparare una bella cena e, tra le diverse portate, le battute e le risate conseguenti si sprecavano.

Naturalmente non si poteva essere ospiti vita natural durante e, attraverso i colloqui mensili, si andavano a pescare quelle risorse interne a ciascuno, per arrivare a raggiungere l’autonomia e l’integrazione sociale. Ricordo che con Anna, dopo un anno di accoglienza, avevo sollevato il problema della necessità di una sistemazione diversa, più stabile e definitiva. Davide, il suo bellissimo bimbo era nato, i suoi familiari sembravano voler collaborare, bisognava entrare nell’ottica di lasciare la casa.

Quello, fu un colloquio difficile! Andare via, lasciare ciò che si conosce, perdere le consuetudini, gli amici, tutto un po’ doloroso. Per qualche tempo, abbiamo lavorato su tutti questi aspetti iniziando da quelli affettivi. «Continueremo a trovarci, se vorrai. L’affetto non si cancella con un indirizzo diverso!»

Iniziò un percorso fatto di pratiche per la casa popolare, per l’asilo nido per Davide e per la ricerca di un lavoro per lei. A quel tempo esisteva ancora la nostra cooperativa sociale Aquilone; Anna aveva imparato a produrre oggetti di cartonnage. «Dovresti impegnarti ancora di più! La vita è costosa e bisognerà che tu sia in grado di procurarti il necessario per te e per Davide. Coraggio!» Come si fa con i figli!

Si andò avanti così per qualche mese. Poi: «Ho deciso; – mi informò un giorno – mi sembra che con le belle maniere non si ottenga niente. Prenderò Davide e mi piazzerò al più vicino posto di polizia. Vedremo!»

Con la morte nel cuore, la lasciai andare. Dopo due giorni di quel sit in le venne trovata una sistemazione provvisoria che, a breve, si trasformò in un alloggio vero e proprio. L’aiutammo ad arredarlo e poi i legami si allentarono fino a non saperne più nulla.

«Ora sono sposata. Ho avuto altri due figli ma il ricordo di tutti voi non mi ha mai lasciato». Con queste sue parole finiva anche la trasmissione. Se avessimo concordato l’intervento, il racconto, il ricordo, l’affetto, non sarebbero di certo stati così vividi e commoventi.

Ciao Anna.

Fonte: Anna, un’accoglienza che buca la tv.

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