Condividere Ombre sull’Algeria – MissiOnLine.org

di Anna Pozzi

La crisi maliana potrebbe avere ripercussioni negative in tutto il Nordafrica. Ne sa qualcosa padre Jean Marie Lassausse costretto a non uscire dal monastero di Tibhirine

«L’onda d’urto del Mali si sta espandendo dappertutto». A dirlo è qualcuno che vive a migliaia di chilometri di distanza dal Paese africano, teatro di una pesante occupazione da parte di ribelli alqaedisti e dell’intervento militare francese, lo scorso gennaio. Padre Jean Marie Lassausse, prete della Mission de France, vive tra Algeri e Tibhirine, dove dal 2000 cerca di tenere vivo il monastero in cui vennero rapiti – e poi uccisi – nella primavera del 1996 sette monaci trappisti. L’onda d’urto è arrivata sin qui.«La situazione in questi ultimi anni era decisamente migliorata», racconta padre Jean Marie, autore, tra l’altro, del libro Il giardiniere di Tibhirine (ed. San Paolo 2011): «Dopo il grande successo del film Uomini di Dio, anche il monastero ha conosciuto una nuova stagione. Molti gruppi di pellegrini venivano a visitare Tibhirine e anche moltissimi algerini. Le maglie della sicurezza erano state un po’ allentate e cominciavamo davvero a pensare a un nuovo futuro. Poi però…».Padre Jean Marie non è tipo da scoraggiarsi con facilità. Ma molto realisticamente deve fare i conti con una situazione che è radicalmente e improvvisamente cambiata. A causa del Mali… e della “sua” Francia. Da quando, infatti, gli aerei di Parigi hanno bombardato le postazioni dei terroristi islamici nella zona di Timbuctù, anche lui ha dovuto fare i conti con le conseguenze di questo intervento. Che ha avuto sì il merito di “liberare” le popolazioni di questa regione, ma che avrà conseguenze ancora tutte da misurare. L’Algeria lo sa bene. Le origini di quei terroristi che oggi imperversano un po’ ovunque nel Sahel sono proprio qui, nelle viscere di quella guerra fratricida che ha devastato il Paese negli anni Novanta e che ha lasciato strascichi tuttora inquietanti. Non a caso l’Algeria è stata la prima a pagare il prezzo di sangue più alto dell’intervento francese in Mali. Negli stessi giorni, infatti, un gruppo di jihadisti ha preso possesso del campo petrolifero di In Amenas, al confine con la Libia. L’incursione è finita con una strage: almeno 37 ostaggi stranieri uccisi, molti con un colpo di arma da fuoco alla testa; mentre sono una trentina i sequestratori morti in seguito al blitz dell’esercito algerino.«Questa violenza non ha nome – scrive il vescovo di Lagouat-Ghardaïa -; è cieca, inaccettabile, ingiustificabile perché tocca degli innocenti. Cosa fare davanti a questa aggressione? Anzitutto riprovarla con tutta la forza delle nostre convinzioni umane e religiose. Dio non vuole la violenza. Non può esserne sorgente e giustificazione. Non facciamo quindi ricadere sui nostri amici musulmani il peso di tali misfatti. Anche loro fanno parte delle vittime. Preghiamo il nostro Dio della Pace che venga a guarire le piaghe vive di chi è nel dolore e nella pena. Che accolga a sé le vittime e rimetta sul retto cammino chi pensa di onoralo commettendo tali orrori».La violenza, però, rischia di non finire qui. Padre Jean Marie ne sa qualcosa. «Il giorno stesso dell’operazione francese nel nord del Mali mi è stata intensificata la scorta che mi accompagna sul tragitto Algeri-Tibhirine e ritorno. E mi è stato chiesto di non uscire più dal perimetro del monastero nei giorni che trascorro lì. Il che rende più difficile l’attività agricola e commerciale, ma è anche pesante da un punto di vista psicologico. Fortunatamente, ho avuto il permesso tacito di far rimanere a Tibhirine, durante il fine settimana, i tre laici che mi aiutano nel lavoro e nell’accoglienza. Dobbiamo essere forti, sperando che questa sia solo una fase congiunturale e passeggera. Insomma, continuiamo a sperare…».Padre Jean Marie non è l’unico a subire restrizioni. Certo, queste misure hanno lo scopo di garantire anche la sicurezza delle persone e soprattutto degli espatriati, ma tolgono importanti spazi di libertà e di incontro, a livello locale. E, allo stesso tempo, scoraggiano i visitatori stranieri. «Alcuni gruppi di pellegrini hanno annullato il viaggio, perché non si sentono sicuri. I media, del resto, non fanno che aumentare l’allarmismo.  Le cancellazioni di gruppi e persone mi fanno soffrire, perché trovo che sia un modo per punire non tanto me o il monastero, ma questo Paese, che avrebbe davvero bisogno di credere nel futuro. Ma la paura, spesso, è incontrollabile. E così io mi consacro soprattutto al lavoro, che in questi mesi è molto duro».

Sta di fatto che l’Algeria vive questo periodo post-Mali con il fiato sospeso. «Il Paese cerca di proteggersi contro tutti questi gruppi di ribelli, alcuni islamisti, altri meri terroristi. Vorrebbe chiudere le proprie frontiere, ma è risaputo che sono facilmente permeabili, specialmente a sud, in pieno deserto. Il governo ha fatto accordi anche con la Francia, che ha già sorvolato il territorio con aerei militari… In sostanza, per me, tutti questi rumori di guerra si sono tradotti  in un divieto di lasciare il monastero senza una scorta della gendarmeria nazionale. Ma sappiamo bene che tipo di visibilità possa avere una simile scorta quando si vanno a fare delle commissioni nella vicina cittadina di Medea… Dunque, in sostanza, non esco più dal monastero».L’Algeria, però, non è la sola a preoccuparsi delle conseguenze della crisi maliana. Anche perché il caso-Mali è già, in sé, la conseguenza di un altro intervento militare, quello della Nato in Libia, fortemente voluto da Francia e Gran Bretagna. La caduta di Muammar Gheddafi aveva, infatti, spinto molti tuareg maliani, arruolati al servizio del raìs, a rientrare nel Paese d’origine armati sino ai denti e a rilanciare i progetti indipendentisti lasciati in sospeso. Peccato che gli stessi tuareg siano stati poi sopraffatti da gruppi di fondamentalisti islamici, che hanno imposto il loro dominio e la loro legge su un vasto territorio. Sino, appunto, a un nuovo intervento della Francia. Ora, però, è tutta la regione a cavallo tra Sahara e Sahel che teme le ripercussioni dei gruppi di fanatici, che si sono dispersi nel deserto, cercando di riorganizzarsi. A Tamanrasset, fonti locali confermano che la situazione è critica. Mentre nel nord del Camerun, dopo il rapimento di una famiglia di francesi, bambini compresi, si teme per l’infiltrazione di gruppi legati alla setta Boko Haram e alla branca ancora più radicale di Ansaru.

Particolarmente preoccupate sono le piccole comunità cristiane di questa regione, dove sino a oggi la convivenza tra musulmani e cristiani era sempre stata pacifica. Ora, però, ci sono timori e sospetti  reciproci. Un missionario, che vive da quelle parti, ne è testimone. «I cristiani nigeriani, che vivono al di là del confine, chiedono di venire in Camerun per celebrare le festività più importanti perché in Nigeria non si sentono sicuri. Ma da noi c’è il timore che tra quella gente si infiltrino anche dei fondamentalisti islamici. Insomma, non si sta tranquilli».Anche in Libia, i cristiani non se la passano per nulla bene: a Bengasi, un centinaio di copti è stato arrestato nel capoluogo della Cirenaica con l’accusa di proselitismo. Grazie all’intervento del ministro degli Esteri egiziano e dell’ambasciata di Tripoli, il gruppo è stato espulso in Egitto, ma le accuse di proselitismo sono state ritirate. Altre quattro persone di diverse nazionalità, membri di una comunità protestante, sono state arrestate, con accuse di proselitismo. Nelle scorse settimane anche tutte le religiose presenti in Cirenaica avevano lasciato i loro conventi e un sacerdote cattolico ha subito un’aggressione a Tripoli da parte di uomini di una milizia armata. In Marocco, infine, le autorità locali hanno messo due gendarmi sulla porta del monastero di Notre Dame de l’Atlas di Midelt, sulle pendici dell’Atlante, dove vive l’ultimo sopravvissuto della strage di Tibhirine, padre Jean Pierre Schumacher, insieme a una piccola comunità di monaci trappisti molto ben voluti dalla gente del posto. «Quello che è importante – dice il priore del monastero, padre Jean Pierre Flachaire – è di far scoprire un volto dei cristiani che non è necessariamente conosciuto. Ci sono ancora dei musulmani che pensano alle crociate o che noi siamo qui per fare proselitismo. Ma non è per niente l’immagine che vogliamo dare, ma mostrare che è possibile vivere insieme. Il dialogo interreligioso è soprattutto questa condivisione, questo “vivere con”. Per me l’eredità di Tibhirine è veramente il comandamento di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri, sino a donare le vostre vite per coloro che amate”. Noi portiamo l’amore di Dio e dobbiamo trasmetterlo ai nostri fratelli dell’islam». La crisi maliana, però, rischia di avere ripercussioni molto negative anche sul dialogo islamo-cristiano.

Fonte: Condividere Ombre sull’Algeria – MissiOnLine.org.

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