Cristiani copti perseguitati in Libia | Tempi.it

gennaio 3, 2014 Franco Molon

L’arresto di una cinquantina di copti in un mercato ortofrutticolo. il sequestro di materiale religioso e le violenze. Accadde in Libia

libia-chiesa-coptiPubblichiamo la ventiquattresima puntata di “Miserere”, la serie realizzata da Franco Molon e dedicata ai cristiani perseguitati (per leggere le storie precedenti clicca qui).

I barbuti entrano nel mercato dalla porta di via Al Ageeb e subito una corrente silenziosa e sotterranea si sparpaglia nel ventre commerciale della città che si nutre al riparo della grande cupola. Da una bancarella all’altra si incrociano sguardi e rimbalzano segnali invisibili. Tutti proseguono nelle proprie occupazioni senza cambiare un gesto o un percorso nella speranza che si tratti di un controllo superficiale, un semplice richiamo alla sorgente del potere esercitato attraverso il timore della sola presenza.

Samir però non riesce a rimanere calmo, non ha documenti ed è entrato senza controlli nel paese che non ha più frontiere. Il ragazzo inizia a mordersi il labbro, a guardarsi intorno di continuo, a pensare di andare a rifugiarsi nel giardino che si apre sul fondo nascosto del mercato; si incammina svelto verso l’uscita posteriore e, a metà strada, raccoglie una cassetta di arance da un banco a caso per dare un senso più chiaro al proprio tragitto.

Al capo dei salafiti non sfugge quel movimento scomposto e improvviso che increspa l’orizzonte del suo sguardo; impartisce un ordine attraverso il walkie-talkie e di colpo compaiono altri tre gruppi di armati che bloccano tutti gli accessi. Samir tenta la mossa della disperazione lanciandosi di corsa verso l’imbocco del patio ma va a sbattere contro un gigantesco miliziano, comparso all’improvviso da dietro una colonna, e rotola a terra, lui e le arance. L’energumeno lo afferra per un braccio e glielo torce dietro la schiena per immobilizzarlo; così facendo scopre il tatuaggio della croce copta che il giovane cristiano porta all’interno del polso destro.

“E’ pieno di cani infedeli!” urla il guerrigliero al suo comandante che ordina l’immediato controllo di tutti i presenti. Il rastrellamento è minuzioso e organizzato. Banco dopo banco vengono identificati proprietari, lavoranti e clienti; chi è in regola con l’arbitrio degli integralisti viene fatto uscire; chi ha la croce tatuata sul polso viene portato al centro della piazza coperta e fatto inginocchiare davanti alle canne dei mitra.

In capo a un’ora la pulizia è completa. Quarantotto sono i cristiani scoperti. Mentre le contrattazioni riprendono il loro corso il gruppo dei prigionieri viene scortato fuori e condotto al quartier generale della cellula quaedista, sulla via al Mahdawi, da dove si tiene sotto controllo il lungomare est e l’accesso al porto da quel lato.

Samir e gli altri vengono ammassati in una piccola stanza e costretti a rimanere accovacciati. Uno dopo l’altro li prelevano, li perquisiscono, li picchiano e li rasano a zero perché chiunque possa riconoscerli e trattarli con il disprezzo che meritano. Il tavolo davanti al quale si svolgono gli interrogatori è pieno di prove della loro colpevolezza, sono santini, libretti di preghiere, immagini di Sant’Efrem e di Maria; c’è anche una piccola Bibbia.

Ogni volta che uno di questi oggetti esce da una tasca o da un portafogli i salafiti urlano scandalizzati, alzano le mani al cielo, fingono di strapparsi i capelli e la barba, invocano la punizione di Allah per una così vergognosa profanazione della loro terra. Il loro capo governa l’indignazione come un direttore d’orchestra e la conduce al punto in cui solo un atto riparatore può calmarla. La croce è un insulto, una ostentazione del male, una insopportabile arroganza. La croce, quella croce, va cancellata.

A Samir capita di essere il primo. Due uomini lo prendono e lo costringono a sedersi davanti al tavolo. Uno di essi lo cinge da dietro le spalle e gli blocca il braccio con una stretta ferrea; l’altro gli fa distendere l’avambraccio, con il polso ruotato verso l’alto, e poi gli immobilizza la mano salendo con un ginocchio sul palmo aperto. La croce è lì, davanti a tutti, quasi viva per la tensione dei tendini e il pulsare delle vene, pronta per essere inchiodata un’altra volta.

Il comandante, invocando Dio, rovescia dell’acido sul tatuaggio. Il ragazzo prima vede lo sfrigolio della carne poi sente il dolore e da ultimo il proprio urlo.

3 Marzo 2013 – Un gruppo salafita fa irruzione nel mercato ortofrutticolo di Bengasi (Libia) e arresta 48 cristiani copti di origine egiziana che vi lavorano con mansioni diverse, alcuni gestiscono piccole bancarelle altri sono alle dipendenze di commercianti del luogo. L’arresto è motivato dal possesso di materiale religioso. I prigionieri vengono condotti alla base della banda dove vengono picchiati, rasati e ammassati in una piccola stanza. In seguito a ciascuno di loro verrà bruciato con acido il tatuaggio della croce che i copti sono soliti portare sul polso.

Il video documenta l’improvvisata conferenza stampa organizzata dal gruppo salafita dopo l’arresto dei 48 cristiani copti. In bella vista i corpi del reato: santini, libri di preghiere, immagini religiose.

Fonte: Cristiani copti perseguitati in Libia | Tempi.it.

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