Eutanasia, il cristiano sta con Ippocrate | La Croce Quotidiano

di Giuliano Guzzo

La battaglia per l’eutanasia legale, lo si sarà ormai capito, è questione di numeri. Non lo affermano i pro-life, ma i sostenitori stessi della depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, i quali – forse memori dei bei tempi (belli per loro) dell’aborto, nei quali le stime sui casi di clandestinità erano sparate alla grande, e prese pure per buone – pare non riescano proprio a farne a meno. Un’ultima conferma di questa sfrenata e un po’ incauta passione per i numeri viene dal sito de L’Espresso, dove leggiamo che siccome un infermiere dell’ospedale Careggi di Firenze nei giorni scorsi ha dichiarato a La Repubblica, quotidiano notoriamente super partes, «che nel suo reparto si verificano ogni anno 30 o 40 casi di eutanasia clandestina. E non è stato smentito né dall’ospedale né dai medici che ci lavorano», ricorrendo ad «una semplice proporzione» ne deriverebbe come «le eutanasie clandestine nel nostro paese» siano «almeno 7.000» (1.3.2015).

Prima di soffermarci sul nuovo dato – i 7.000 presunti casi di eutanasia clandestina -, prendiamo atto con soddisfazione di come, fra i cultori dell’autodeterminazione assoluta, si sia comunque meno disinvolti coi numeri, soprattutto rispetto ai 20.000 casi annui di “dolce morte” clandestina sbandierati fino a ieri, stima frutto di una cattiva interpretazione dei risultati di uno studio, come denunciato dai suoi stessi autori: segno che “La Croce”, che di questo si era occupata anche sabato scorso, è testata che non passa proprio inosservata. Ma veniamo agli «almeno 7.000» casi di eutanasia clandestina. La stima, esito di «una semplice proporzione», non può ritenersi attendibile per più ragioni, a partire dal fatto che il dato di partenza su cui è basata – i presunti «30 o 40 casi di eutanasia clandestina» al Careggi -, se è vero che ufficialmente non risulta smentito, al momento non è neppure provato, a meno che non si voglia ritenere prova inoppugnabile un’intervista anonima rilasciata ad una testata palesemente schierata per l’eutanasia legale.

E poi – anche ammettendo la buona fede dell’infermiere intervistato – chi ci dice che quei «30 o 40 casi» corrispondano effettivamente ad eutanasia? Vale la pena chiederselo alla luce, fra l’altro, di una ricerca dell’Università di Milano Bicocca – i cui esiti sono stati ripresi dal Corriere della Sera del 22 ottobre 2006 – dalla quale emergeva come fra gli stessi oncologi, neurologi, medici di famiglia, anestesisti e genetisti sussistano divergenze sulla definizione di eutanasia: per alcuni è la sedazione terminale, per altri l’aiuto al suicidio, per altri ancora lo stop alla nutrizione artificiale o la somministrazione di cure che accelerano la morte. Prima di qualsivoglia pensiero sul tema, sarebbe insomma opportuno intendersi su cosa esattamente s’intenda, tanto più in considerazione della ricorrente confusione, per l’appunto, fra l’eutanasia – che riguarda un atto o omissione che provoca il decesso di un malato – e la desistenza terapeutica, scelta con cui, a fronte di un paziente in condizioni estreme e purtroppo prossime alla morte, si accetta di non impedirla.

Ad ogni modo, ipotizziamo pure – sorvolando sulle perplessità brevemente ricordate – che così sia: che «le eutanasie clandestine nel nostro paese» siano «almeno 7.000». Il numero non sarebbe certo irrilevante, ma il problema con cui le Istituzioni dovrebbero misurarsi sarebbe quello, come impone l’ordinamento, di perseguire i responsabili di quei decessi senza pensare di lavarsene le mani sostenendo che, siccome è assai vasto, allora conviene tollerarli. Se s’iniziasse a ragionare così, infatti, vorrebbe dire che un domani non avremmo argomenti contro proposte di depenalizzazione di condotte criminali che allorquando divenissero troppo diffuse. Ma il diritto, com’è noto, non ha fondamento né statistico né demoscopico; ne consegue che, qualora emergesse un dato serio di diffusione dell’eutanasia clandestina – per ora abbiamo solo “stime” basate su “stime” -, i medici e la società tutta non potrebbero che seguitar a fare proprie le parole, risalenti ad oltre duemila anni fa, del non cristiano Ippocrate: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio».

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